L’innovazione è un termine complesso, che presenta mille sfaccettature. Roberto Panzarani, docente di Innovation Management e presidente dello Studio Panzarani e Associati, che segue da molti anni questo tema, lo sa molto bene; proprio per questo nel suo ultimo saggio (Viaggio nell’innovazione, ed. Guerini e Associati) parte dai fondamentali, evitando etichette alla moda. Il “viaggio” della sua ricerca prende le mosse da alcune esperienze concrete, da cui il lettore può trarre stimolo oltre che insegnamento. «L’innovazione – spiega l’autore fin dalle prime pagine – non è mai stata così al centro dell’attenzione. Dalla tecnologia al marketing, alla definizione dei piani di business, nulla si potrebbe ottenere in assenza di questo motore, che di fatto si è aggiunto ai tradizionali fattori della produzione, perché la rende possibile».
Saremmo però fuori strada se pensassimo, magari condizionati dalle mirabolanti scoperte della scienza, che l’innovazione si possa risolvere in un mero fatto tecnico. Si innova a partire da uno stato d’animo positivo, che fa scoccare la scintilla cambiando il corso delle cose. Questo aspetto, quasi impalpabile, perché legato alla forma mentis e alla sensibilità di ciascun individuo, è spesso colpevolmente trascurato: lo dimostra molto bene il caso Italia. Abbiamo molta capacità nella creazione di prodotto, siamo spesso pronti a ripensare e riadattare il modello di business, dimostriamo però una palese difficoltà a sviluppare e diffondere una cultura dell’innovazione. I riflessi di questo vulnus, visibile da tempo nel nostro tessuto industriale e produttivo, sono percepibili non solo a livello degli assetti organizzativi, ma anche nella scarsa propensione a mettersi in discussione e ad aggiornare le competenze. Come superare l’impasse?
La risposta è prima di tutto di metodo, che vuol dire creare una sorta di “mobilitazione” all’interno delle aziende. Con questa finalità da molti anni lo Studio Panzarani ha sperimentato lo strumento del learning tour, per sollecitare imprenditori e manager a visitare i luoghi dell’innovazione, per trarne idee, suggerimenti, ma soprattutto per creare lo spirito giusto, che è il segreto che sta a monte di ogni iniziativa di successo. «Quando – confessa Panzarani – a valle di un corso di formazione o di un confronto in aula, un’azienda o un’istituzione (la cosa capita più spesso di quanto si possa pensare n.d.r.) decidono di creare una direzione apposita, penso tra me e me: meglio di niente, anche se non è questa la soluzione auspicabile. L’innovazione non può, infatti, essere confinata in un solo àmbito, ma deve trasversalmente contagiare tutte le fasi del processo produttivo e tutte le risorse che operano in una struttura organizzativa».
È molto importante, insomma, che si crei un mood generalizzato, perché nella società della conoscenza vince chi sa mettere in comune idee che moltiplicano il valore, contribuendo a plasmare quella dimensione dell’intelligenza collettiva che, come ci ha insegnato Pierre Levy, è la condizione di sistema giusta per far crescere la ricchezza di un paese a qualsiasi latitudine.
Nella tessitura di questo ragionamento, attenzione però a non dimenticare che – nella contemporaneità – innovazione, tecnologie e globalizzazione sono termini inscindibili. Per creare un “ecosistema del cambiamento”, altro termine chiave del saggio, bisogna dunque porsi il problema dell’execution, altro punto debole del sistema Italia. «Silicon Valley, Istraele, Bengalore, sono luoghi che proponiamo ai manager di visitare per dimostrare che le buone idee e le intuizioni brillanti, non devono rimanere confinate nel regno dell’utopia. In molti contesti – precisa l’autore – le soluzioni innovative sono già da tempo divenute realtà, con un vantaggio misurabile da tutto il corpo sociale. Questo significa che bisogna, a tutti i livelli, uscire dalle zone di “confort”, per valutare bene le potenzialità che nazioni come l’Italia hanno, ma che troppo spesso rimangono inespresse».
La tecnologia ha dilatato lo spazio della possibilità, adesso siamo, in particolare, chiamati a sfruttare il nuovo orizzonte del digitale. Non solo l’Italia ma anche la vecchia Europa hanno molto da imparare in questo momento di evidente declino. «Nazioni come il Brasile, pur scontando enormi difficoltà di carattere storico-politico stanno crescendo non solo in virtù di una maggiore presenza dei giovani, ma anche per la capacità di usare reti sociali dinamiche, aperte alla promozione del cambiamento». Ci vuole un alto tasso di energia positiva per seguire certi esempi, peccato che la nostra Europa non parta da una posizione di vantaggio. I giovani sono sempre meno e hanno preso altre rotte. Questo complica la situazione anche se non conta solo l’anagrafe, occorre lavorare di più sulla mentalità, liberarsi da vecchi schemi mentali per ritrovare quello spirito pionieristico che ha fatto dell’Occidente la culla della civiltà. L’atteggiamento positivo alimentato dalla cultura è un importante requisito, anche se da solo non basta.
Sarebbe ora che riuscissimo a schiacciare la “qualipatia” denunciata dal Presidente dell’Eurispes Gian Maria Fara, un virus che ha generato, non solo alle nostre latitudini, una selezione avversa: allontanare i più preparati per fare spazio ai mediocri. Viene in mente il detto di Vinicus de Moraes: «Siamo tutti troppo ignoranti, nell’ignoranza non ci può essere competizione». Deve tornare a farsi strada un’adeguata capacità progettuale delle classi dirigenti, orientata a individuare le strade della ripresa che devono necessariamente passare attraverso un rafforzamento degli investimenti in formazione e in cultura. «I dati che abbiamo a disposizione sono purtroppo sconfortanti: solo il 20% della forza lavoro è impegnata in percorsi di aggiornamento del know-how, mentre nell’ultimo anno 50mila giovani hanno lasciato il nostro Paese. Un’emorragia di intelligenze così grave non possiamo più permettercela perché di questo passo usciremo definitivamente dal novero dei paesi che contano nello scacchiere internazionale».
Risulterà decisivo recuperare l’energia di tanti talenti perduti. Ecco perché il viaggio deve partire da noi, per rimuovere scorie e pregiudizi. Creare il profilo dell’Italia che verrà, in un’Europa anch’essa rinnovata, capace di recuperare una vera unità sul terreno dei valori, scavalcando il freddo schema dei parametri di stabilità; la gabbia della burocrazia deve essere il primo obiettivo che un’élite competente dovrà porsi, senza fare sconti e senza ricorrere a rimandi. Il tempo dell’incertezza e dell’irresolutezza è infatti ormai scaduto da un pezzo, è arrivata l’ora delle risposte.