Chiedersi se si possa insegnare la Shoah può sembrare a dir poco un interrogativo irriverente o una sospetta curiosità. In realtà, porsi una domanda di questo tipo – essenziale e ineludibile – significa chiedersi non perché, ma come si dovrebbe insegnare oggi la Shoah. Domanda che ne comporta una ancora più insidiosa e che così può essere formulata: come si può conservare e mantenere viva la memoria? Come onorare un ricordo-testimonianza che non deve essere assolutamente tradito? La progressiva scomparsa degli ultimi testimoni diretti dello sterminio rende ancor più urgente l’esigenza di una risposta. Sappiamo tutti che la memoria della Shoah è sempre stata sotto l’attacco continuo di critiche, polemiche, tentativi di revisione e forme plateali di negazione. È così da quando s’iniziò ad acclarare l’entità della tragedia subito dopo la fine della seconda guerra mondiale. Sin da quando, per essere il più chiari possibile, a Norimberga, nel ’46, Auschwitz diventò un tabù. È occorso perciò un processo lungo e impegnativo, che possiamo chiamare di rimemorazione e riconoscimento effettivo del passato, perché la Shoah rientrasse a buon diritto nella storia e perché il valore di testimonianza contenuto nelle sofferte parole dei sopravvissuti si trasformasse in un lascito morale. È stato già detto, ma gioverà ripeterlo: Auschwitz, e ciò che questo nome implica, non è una semplice pagina di storia.
Il modello di un paradosso insolubile
C’è, tuttavia, il rischio che lo divenga. In parte, Auschwitz, assurto qui a simbolo della Shoah e inteso anche come paradigma di una modernità lacerata e terminale (immagine riscontrabile, ad esempio, in pensatori diversi come Adorno e Bauman), Auschwitz, dicevamo, in buona misura è già una pagina da manuale, e non solo perché il racconto dello sterminio è letteralmente diventato un tema o un capitolo dei libri di storia contemporanea con i quali la disciplina storica viene insegnata oggi nelle scuole. Perché non diventi un non-luogo della memoria, un evento comparabile con altri e, alla fine, confondibile con mille altri ancora, come pretende di fare lo storico relativista che indugia pericolosamente sui mobili confini del negazionismo, Auschwitz dovrà continuare a rappresentare il modello di una paradossalità insolubile. Non c’è altra condizione – non, certo, quella dello storico che saprebbe bene come rubricare la voce “Shoah” tra gli eventi capitali del XX secolo – per fare i conti con quel che, per richiamare il titolo di un saggio di Agamben oggi quanto mai attuale, rimane ancora di Auschwitz.
Auschwitz non dovrebbe mai trasformarsi nell’oggetto di una narrazione lirica
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“Paradossale” è, alla lettera, quanto va contro l’opinione comune e la normale capacità della razionalità umana di intendere un evento, un fatto, una teoria. Il paradossale può essere tale da inibire qualsiasi sforzo di comprensione, tanto da farne accettare l’impossibilità. Fra i tanti, lo hanno sostenuto, a proposito dello sterminio ebraico, Primo Levi e Theodor Adorno. Per quest’ultimo, addirittura, Auschwitz non dovrebbe mai trasformarsi nell’oggetto di una narrazione lirica, perché la poesia, in un certo senso, solleva l’animo e celebra la bellezza, mentre nella Shoah niente di tutto ciò è possibile. Una posizione fin troppo radicale anche per Celan, che indurrà il filosofo francofortese a renderla meno aspra e categorica. Il riconoscimento della paradossalità di Auschwitz è, per Jean-Michel Chaumont, un passaggio obbligatorio per chi vuole farne oggetto di studio e riflessione: «viviamo in una sorta di irriducibile tensione fra l’ammissione fattuale di ciò che è stato e la protesta etica per cui non sarebbe mai dovuto accadere. Come ogni grave crisi, tale tensione provoca in un primo momento uno sconvolgimento globale: paralizza la riflessione, stravolge ogni certezza e ogni valore, obbliga a una revisione totale delle norme di pensiero e di azione. Come è possibile, infatti, conservare fiducia in un mondo in cui è stata possibile Auschwitz?»1.
Sopravvivere a tutte le narrazioni possibili
Già, come è possibile non cadere nella paralisi dello sconforto quando scopriamo ciò che è veramente stato? Eppure, proprio in virtù della sua paradossalità (Agamben parlerebbe di “aporeticità”), Auschwitz potrebbe insegnarci ad avere più fiducia in quello che facciamo, a contare di più sulla correggibile fallibilità dei nostri giudizi e a credere nella necessità di alimentare la memoria. Serviranno le giornate commemorative, i dibattiti, i convegni accademici e così anche le immancabili novità dell’industria cinematografica che ci ricorda puntualmente che il racconto dello sterminio raggiunge un alto livello di efficacia comunicativa quando viene proiettato sul grande schermo e reso, per così dire, ancor più vivo e drammatico di quanto possano fare le semplici parole. Se la Shoah saprà sopravvivere a tutte le sue narrazioni possibili (lo è, in fin dei conti, anche quella che ne propongono i negazionisti), se sapremo generare nuove forme di narrazione e preservare nello stesso tempo la dura verità storica, allora la memoria avrà ancora molto da dire e insegnare.
1Jean-Michel Chaumont, “Auschwitz oblige?” Cronologie, periodizzazioni, inintelligibilità storica, nel vol. Insegnare Auschwitz. Questioni etiche, storiografiche, educative della deportazione e dello sterminio, a cura di Enzo Traverso, Bollati Boringhieri, Torino 1995, 54.