Non ho ricordi personali di Sergio Zavoli, se non la sua firma sotto la mia lettera di assunzione in Rai, 36 anni fa. D’altronde, non mi sono mai unito a coloro che seguono il feretro per celebrare se stessi.
In poche righe vorrei ricordare non il giornalista, lo scrittore o il politico, ma in una parola sola, come si era definito, il “socialista di Dio”. Un tempo essere socialisti voleva dire essere atei. Zavoli era di fede cattolica e di animo laico. Il resto era sangue romagnolo, come quello del suo amico Fellini, riminese come lui. Guardando la luna spesso si erano trovati a discutere dell’Oltre. Un traguardo di tappa, tra i tanti, che aveva raccontato da immenso cronista, unico nel suo stile di intervistatore.
Negli ultimi anni serpeggiava nelle rare interviste, e in qualche scritto, la delusione per una società dove i giovani non riuscivano ad essere protagonisti di verità e giustizia. Ma l’ultimo grande cruccio era vedere la deriva presa dalla tv urlata, un mondo che non gli apparteneva, lui principe della parola e dei toni pacati. Ora che ha scalato l’ultima montagna, la maglia rosa del giornalismo dovrà essere ritirata e assegnata a lui, per sempre.