Intelligenza Artificiale (AI): chi è anche solo un po’ informato sulla questione ha chiara una cosa: l’AI è (non sarà, è già) una delle invenzioni più impattanti di sempre sull’Uomo. Avete presente l’elettricità? La penicillina? La ruota? Ecco. Così come la vita cambiò quando l’Uomo iniziò a coltivare la terra, come fu stravolta (in meglio) dalla Rivoluzione Industriale, così accadrà con l’AI. Il concetto è tanto importante (e vero) che vorrei ribadirlo da un’altra prospettiva: l’Uomo di domani guarderà alle nostre vite esattamente come noi guardiamo a quelle del Medioevo.
Il dibattito sull’impatto che l’AI avrà sulla vita umana è imperniato su una predominante emotiva negativa: la paura
Il dibattito sull’impatto che l’AI avrà (probabilmente) sulla vita umana è intensissimo. A me pare che sia imperniato su una predominante emotiva negativa: la paura. Se, infatti, si passano in rassegna le dichiarazioni e i pensieri dell’élite contemporanea – scienziati, informatici, top manager, qualche politico (qualcuno ma pochi: i più non sembrano essere consapevoli del tema) – la varietà delle posizioni va dal grigio scuro al profondo nero. Sembra che la discussione non riesca ad uscire da un continuum negativo che parte da posizioni apocalittiche per arrivare ad altre “solo” seriamente preoccupate. Esempio del primo tipo è il parallelismo che alcuni tracciano fra il deep learning e le armi nucleari, in quanto a impatto potenziale sull’esistenza umana; esempio del secondo è l’opinione del Future of Humanity Institute di Oxford, che urla (nel deserto?) per richiamare l’attenzione sui rischi enormi insiti in questa famiglia di tecnologie. Intendiamoci: non è assente, in nessuno, la consapevolezza che l’AI sia potenzialmente foriera di grandi utilità ma il riflettore, ad oggi, non pare essere puntato lì. Sta fisso sulle paure umane che nascono di fronte a qualcosa che umano non è ma che dell’umano possiede la caratteristica qualificante (l’intelligenza), esplosa però a un rango sovrumano e privo di inibizioni etiche.
Ora, il punto che vorrei fissare qui non è se abbia senso o meno avere paura dell’AI. Credo infatti che sia un tema poco rilevante: in primis perché l’AI c’è e ci sarà, sempre e sempre di più; secondo poi, perché per definizione la mente umana teme l’incognito e qui siamo, per larghi tratti, in quel territorio lì. Penso, insomma, che l’AI sia come la vecchiaia: arriva, arriva per tutti e a tutti cambia la vita. Inutile temerla, meglio darsi da fare per viverla al meglio. Il resto è rumore di fondo. Il tema della paura, infondo, mi pare abbia una sola soluzione possibile: trovare e rapidamente, il modo di regolare l’AI – come le armi nucleari, insomma – e questo non sarà semplice.
Solo il 7% degli over 16 italiani è capace di comprendere pienamente un testo che legge
Il punto che invece qui vorrei sollevare è che vale la pena di capire come noi umani possiamo attrezzarci per questa partita, soprattutto se si è giovani, in età scolare/universitaria e, in generale, ancora impegnati in percorsi di apprendimento. Insomma, la questione vale in particolare per quelli “con tutta la vita davanti”. Il riflettore deve puntare allora sul sistema educativo per una semplice ragione: attrezzarsi a un mondo con l’AI significa dotare la mente di strumenti concettuali adeguati e nuovi (perché l’AI è roba nuova), e questo va fatto nella fase biologica in cui essa è maggiormente plastica ed elastica. Insomma, tocca studiare (da giovani). Qui vengono fuori i guai. La nostra scuola, infatti, è stata finora particolarmente brillante nel raggiungere un risultato da record europeo: rendere odioso lo studio agli italiani. Navigando infatti fra i risultati Invalsi e altre analisi, si arriva stimare che solo il 7% degli over 16 italiani sia capace di comprendere pienamente un testo che legge. I test che si fanno nelle scuole superiori – parliamo dunque di ragazze e ragazzi che si dedicano allo studio da almeno otto/dieci anni della loro breve vita – dicono che solo uno su due raggiunge il livello base in italiano (unica lingua conosciuta, peraltro). I dati dicono che un maturando su due (cioè gente che studia da dodici anni) non possiede le basi minime in matematica.
Aver fatto detestare lo studio a generazioni di italiani rende il Paese vulnerabile di fronte alla rivoluzione in corso
Insomma, la nostra scuola è stata efficacissima nel produrre generazioni di persone la cui mente è incapace di gestire un pensiero logico complesso: mancano le parole (i mattoni del pensiero) e l’abitudine a metterle assieme in modo articolato (la capacità logica). Aver fatto detestare lo studio a generazioni di italiani – non solo ai giovani di oggi ma anche ai loro genitori quando erano giovani e, temo, ai loro nonni – rende il Paese passivo e vulnerabilissimo di fronte alla rivoluzione in corso. Si dirà che il problema della scuola italiana è complesso – ed è vero. Ma qui si tratta di trovare una linea di pensiero laterale, forse discontinua rispetto a quella che ispira le cosiddette “riforme”, perché la sfida che l’AI sta portando al mestiere di chi forma le menti è di una qualità e magnitudine probabilmente inedite.
Il sistema scolastico di fronte all’AI ha bisogno di altre soluzioni più innovative
Così ragionando, viene da chiedersi se una parte del problema non risieda nel profondo, ovvero nella visione che sottende i metodi didattici. I metodi didattici sono i modi con cui si realizza, in concreto, la crescita mentale delle persone. Mi limito a proporre, in proposito, due casi utili ad esemplificare ciò cui mi riferisco. Entrambi sono espressione di una visione che credo inadatta a generare menti adatte al futuro: il primo concerne il concetto di studio e la distribuzione dell’apprendimento fra casa e scuola; il secondo, manifesta quella mentalità vetero-poliziesca che ancora pervade le nostre aule. Il primo caso: un recente articolo di Repubblica (27 marzo 2023) rileva che: «in quarta elementare le maestre italiane ai propri alunni danno esercizi 3,3 volte superiori a quelli che affrontano i loro coetanei francesi e superiori del 50% di quelli con cui si devono confrontare settimanalmente i bambini spagnoli e finlandesi». Riflessione: considerare le menti come otri da riempire non sembra essere una buona idea. Il secondo caso: in un’epoca in cui l’AI Generativa è universalmente accessibile – con ChatGpt o Bard, per fare solo due esempi – molti Dipartimenti universitari spendono soldi per acquistare software antiplagio (cioè per scoprire se i laureandi copino tesi già fatte o altri testi). Riflessione: se uno scoglio non può arginare il mare, forse dovremmo smettere di comprare scogli e trovare altre soluzioni più innovative. Concluderei con una domanda: nell’era dell’AI possiamo essere soddisfatti di un sistema scolastico capace di produrre negli italiani un’Intelligenza Naturale modesta e con la testa rivolta all’indietro (se non, peggio, sotto il terreno)?
*Alberto Mattiacci, Presidente del Comitato Scientifico dell’Eurispes. ordinario di economia all’Università Sapienza di Roma.