Chi erano davvero Falcone e Borsellino e come ricordarli

Anniversari come quello delle stragi di mafia del 1992, in cui persero la vita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, possono sfuggire alla tentazione della retorica commemorativa. Sono occasione di riflessione sull’attualità dell’impegno per rendere la giustizia efficiente e credibile, nel ricordo di coloro che a quegli ideali resero testimonianza di vita. Ma chi erano davvero Falcone e Borsellino e come dovremmo ricordarli?

 

L’infinità di luoghi comuni

Il rischio è sempre quello, cedere alla tentazione della retorica commemorativa, fatta di slogan, frasi ad effetto, ammonimenti. Un’infinità di luoghi comuni. Non si sottrae a questo pericolo il «giorno della memoria antimafia», tra il 23 maggio e il 19 luglio, a ricordo delle stragi di Capaci e di via D’Amelio, in cui persero la vita i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e gli uomini e donne delle loro scorte.

Si dà il via a cerimonie nelle quali vengono espressi concetti roboanti, quanto effimeri, destinati a durare il tempo delle celebrazioni, senza tradursi in metodo e costanza. Il rituale ha un antefatto spontaneo e minuto. C’è tutta una fase anticipatoria: fioriscono pensieri, immagini, citazioni o aforismi.

Social e media si riempiono di spunti, sono parole, disegni, frammenti che danno corpo al tributo collettivo nei confronti di quanti, come Falcone e Borsellino, hanno sacrificato la vita. Non è banalizzazione dei fatti storici, quelle sono manifestazioni di partecipazione effettiva. Quei gesti hanno lo stesso significato di un piccolo fiore lasciato nel luogo dell’eccidio. Della sosta silenziosa, in raccoglimento, davanti ad una lapide. Per non dimenticare.

Poi, il momento centrale è rappresentato dalle occasioni pubbliche, con l’intervento di esponenti politici, uomini delle istituzioni. Corone d’alloro, fiori, discorsi pubblici. La fase con il maggior tasso di rischio retorico delle celebrazioni. Non mancano i propositi di lotta. È declamato in tutte le forme l’impegno antimafia, è assicurato lo sforzo per rendere la giustizia più efficiente e credibile. Come dubitarne allora? Difficile dire quanto, in trent’anni circa da quel 1992, a tutto ciò sia stato dato seguito.

Tante lapidi sono comparse ovunque; strade e piazze ricordano i due giudici. Sono nati organismi (nazionali e locali) per tutelare la legalità, difendere le vittime di mafia, o almeno sensibilizzare la gente. L’apparenza però non deve fuorviare.

Innumerevoli vicende sono lì a segnalare che la mafia non è più un problema siciliano. Non perché debellata, ma perché infiltratasi nel tessuto di altre regioni, estesasi in zone che ne erano immuni, dove ha messo radici difficili da estirpare. Soprattutto nel centro e nel nord, in cui l’economia e la politica offrono occasioni di penetrazione e spazi speculativi.

La fiducia dell’opinione pubblica è scossa dagli episodi di malgoverno della magistratura, dagli scandali che si accavallano, dal difetto di trasparenza e correttezza che troppo di frequente emerge nelle vicende giudiziarie: ecco il caso Palamara, le manovre correntizie per condizionare le nomine dei vertici, la storia del trafugamento dei verbali segreti sulla presunta loggia Ungheria.

 

Chi erano davvero Falcone e Borsellino? Stesse idee, stesso coraggio

Nell’immaginario collettivo, Falcone e Borsellino formano ormai un binomio indissolubile e così rimangono nella memoria. L’amicizia personale e professionale si è cristallizzata per sempre nell’identico destino. Impossibile ricordarne uno senza fare cenno all’altro. Anche nelle date che li riguardano, il ricordo li accomuna nell’affetto e nella gratitudine.

È come se si identificassero l’uno nell’altro, tanto è inestricabile l’intreccio delle loro vite e delle sorti individuali. La comunanza delle idee, lo stesso coraggio. La medesima abnegazione riconoscibile nelle scelte. Una sola “entità” dunque. Addirittura una sola grande famiglia, che comprendeva fin da subito le scorte, anzi “la scorta”. Tutti erano un gruppo solo, con la giovane moglie di Falcone, anch’ella magistrato, e quella silenziosa poliziotta, Emanuela Loi, la prima donna caduta in servizio.

Di colpo però, quando ricorre questo anniversario, l’orologio della storia si sposta bruscamente all’indietro. Non sono i discorsi di convenienza a prevalere. I motivi di circostanza lasciano il passo ad altro. Qualcosa sospinge la retorica fuori della porta. La cestina come rifiuto inutile. Ci si sente infatti sbalzati dalla propria sedia, proiettati bruscamente in altro contesto. Trasportati a forza nel sangue e nella lacerazione di quei giorni. Impossibile girare lo sguardo altrove. Distrarsi, pensare ad altro. Perdersi nella strumentalità delle contrapposizioni politiche.

Ricompaiono le immagini della tragedia. Lo squarcio sull’autostrada siciliana presso Capaci al passaggio dell’auto di Falcone e della moglie Francesca Morvillo, provocato da 500 chili di tritolo; la colonna di fumo visibile a distanza; il sapore acre della morte. L’inferno scatenatosi davanti al palazzo di via D’Amelio a Palermo, per lo scoppio di una 126 rubata, contenente 90 chili di esplosivo, mentre Borsellino, come tutte domeniche, si recava a far visita alla madre.

Ma, con esse, emergono anche altri riquadri di vita, sovrastati da una precaria tranquillità, dominati da quell’aria distesa e nervosa che precede la tempesta e la rende ancor più cupa. L’apparenza di normalità racconta, meglio di ogni altra cosa, quelle esistenze e il dramma vissuto.

Appare una casermetta di mattoni rossi che si riflette sul mare turchese di sconfinata bellezza. È la foresteria di Cala d’Oliva all’Asinara, dove Falcone e Borsellino, con le rispettive famiglie, vennero richiusi nell’agosto del 1985 per scrivere l’ordinanza di rinvio a giudizio nel maxiprocesso contro la mafia (due anni dopo: 19 ergastoli, altri 2665 anni di carcere), al riparo dalle minacce di attentato che trapelavano nelle carceri.

A pretendere – affettuosamente – che stessero in un luogo così isolato (e controllato), era stato Antonino Caponnetto, capo del pool di Palermo: indispensabile che i giudici fossero sradicati dalla città in quel periodo, troppo intenso il pericolo. Come se fosse bastato questo a sottrarli alla furia omicida che si stava scatenando.

Compaiono anche le foto dei rari momenti di pausa, brevi intervalli nelle giornate dedicate a studiare e scrivere: i due a fumarsi una sigaretta insieme e parlottare tra loro, nonostante tutto. Lo sguardo disteso e profondo, verso l’orizzonte senza fine, prima dell’uragano. Sulle labbra, quell’accenno di sorriso, che poi un fotografo fortunato avrebbe colto e immortalato per sempre trasmettendoci così la loro immagine di uomini cordiali e fiduciosi, legati da profonda amicizia.

Adagiata silenziosamente sugli scogli, una vista mozza fiato, la struttura dista poche centinaia di metri dal carcere bunker dove scontava la pena un mafioso, Raffaele Cutolo, che trascorreva il tempo con le melodie napoletane, e dove – per contrappasso – sarebbe stato seppellito nel 1993 il capo dei capi della mafia, il corleonese Totò Riina, “u’curtu”, che al suo sbarco all’Asinara ebbe a dire “me la pagheranno”.

Un lavoro di Stato, a servizio della collettività, quello svolto in condizioni di anomala restrizione, che però i due – piccolo particolare – pagarono di tasca propria. Lo Stato presentò loro il conto di 415 mila lire a testa, per pernottamenti e pasti. I due versarono quanto chiesto, o lo anticiparono, e non chiesero mai il rimborso. Non perché non ne ebbero modo.

Ora l’Asinara è parco nazionale. Il carcere è chiuso. La foresteria, ristrutturata e dotata di galleria fotografica, è visitata ogni anno da scolaresche e turisti. Sulla parete esterna dell’edificio, è apposta una targa. Due frasi dialogano idealmente tra loro, come se quei due uomini fossero sempre lì, in carne ed ossa, a discorrere e confidarsi.

“Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola” (Borsellino). “La mafia non è affatto invincibile: è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine” (Falcone). L’aria nell’isola, anche nelle giornate ventose, è calda e leggera, qualcosa rende il luogo più silenzioso e incontaminato.

 

*Angelo Perrone, è giurista e scrittore. È stato pubblico ministero e giudice. Si interessa di diritto penale, politiche per la giustizia, tematiche di democrazia liberale. È autore di pubblicazioni, monografie, articoli.

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