Colonialismo digitale, è l’Africa la terra promessa

Crescita o nuove forme di colonialismo?

Google ha da poco annunciato un piano di investimenti da un miliardo di dollari in 5 anni per sostenere la trasformazione digitale in Africa. All’interno del pacchetto di investimenti, anche la realizzazione del cavo sottomarino denominato “Equiano”, già annunciata nel 2019, che collegherà Africa ed Europa con snodi in Portogallo, Nigeria e Sudafrica. Ciò consentirà il miglioramento dell’infrastruttura di cloud computing, velocità Internet più elevate e costi di connettività più accessibili. Un po’ furbescamente, al cavo sottomarino è stato dato il nome di Olaudah Equiano, scrittore e attivista nigeriano schiavizzato vissuto nella seconda metà del Settecento e che acquistò la propria libertà. Ma davvero parliamo di libertà? O siamo di fronte a sofisticati processi alla base di un nuovo tipo di colonizzazione?

Il colonialismo digitale

Per primo, nella metà degli anni Settanta del secolo scorso, Herbert Shiller, aveva descritto il fenomeno dell’eColonialism, o colonialismo digitale, per cui le nazioni più potenti e avanzate sul piano tecnologico avrebbero asservito i paesi poveri e in via di sviluppo attraverso l’importazione «di apparecchiature di comunicazione e software prodotto all’estero». Anche se, in linea con la geografia politica dell’epoca, Shiller immaginava che i colonizzatori tecnologici sarebbero stati quelli appartenenti a nazioni come gli Usa, la Germania e il Giappone; senza conoscere la successiva escalation di grandi potenze come la Cina o l’India, Shiller aveva visto giusto.

Le tecnologie chiaramente hanno il pregio di comportare tutto un substrato di conoscenza, linguaggi non scritti, richiami alla cultura di riferimento, quella che le ha prodotte. Insomma, sono un ottimo veicolo dei concetti di base della cultura di appartenenza del “colonizzatore”.

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Non solo. Oggi, milioni di persone nei paesi poveri o in via di sviluppo, raggiunti in maniera più capillare dalle conoscenze tecnologiche e dalle apparecchiature per entrare nei flussi globali della comunicazione sono essenzialmente dei clienti e insieme una fondamentale risorsa di business. E lo sono su due livelli: il primo, come meri acquirenti, possibili futuri consumatori, anche se ovviamente di un mercato low cost. Il secondo, come produttori di dati che vanno ad arricchire gli infiniti bacini di informazioni che convergono nei big data.

La necessità di normare il mondo del digitale

Dal canto suo, Google ci fa sapere che, dal 2017, ha già formato 6 milioni di giovani africani e imprese nella conoscenza e nell’accrescimento delle competenze digitali. Il gigante del tech ha inoltre sostenuto più di 50 organizzazioni non profit in tutta l’Africa con oltre 16 milioni di dollari di sovvenzioni e ha consentito a 100 milioni di africani in più di accedere per la prima volta ai servizi Internet tramite Android.

Questo è solo uno degli esempi più lampanti di come si stiano muovendo i colossi delle tecnologie avanzate per acquisire nuovi spazi nel mondo, spesso in luoghi e paesi nei quali non vi è una normativa adeguata ad accogliere un sostegno nella crescita che potrebbe diventare anche troppo “invadente”. 

 

 

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