Coronavirus in Africa: è qui che ora si teme la tragedia. Ecco perché

Con oltre 13mila contagi e 700 morti, e con tassi di crescita, in alcuni paesi, simili a quelli visti in Italia nella fase iniziale dell’epidemia, il Coronavirus minaccia di diffondersi a macchia d’olio nell’Africa subsahariana con, possibili, devastanti conseguenze per il continente.
Il fatto che l’Africa sia stata fino ad ora il continente più risparmiato, dopo l’Oceania, dalla diffusione del Covid-19 è presumibilmente legato al minor numero di connessioni internazionali presenti. Non a caso i paesi che ad oggi registrano un più alto numero di contagi sono quelli nord-africani, la Nigeria e il Sud Africa, cioè le aree del continente maggiormente connesse al resto del mondo. Ora che però il Coronavirus è presente in tutti i paesi africani, ad eccezione del Lesotho, è necessario domandarsi quali siano gli strumenti con cui i paesi dell’Africa subsahariana si preparano a gestire questa crisi.
Il principale punto di forza del continente risiederebbe nell’età media della popolazione. Su di una popolazione di un 1,3 miliardi di persone, 47 milioni hanno più di 65 anni e 6 milioni più 80, mentre lo stesso dato per l’Europa risulta essere rispettivamente di 143 e 40 milioni su di una popolazione totale di 750 milioni di persone. L’Africa, inoltre, ha avuto due mesi di tempo per mettersi in condizione di rispondere più efficacemente alla crisi potenziando le capacità di eseguire test diagnostici (oggi circa 40 paesi sono in grado di effettuare test per il Coronavirus contro i due di inizio febbraio) ed attuando, fin da subito, misure di distanziamento sociale. Al riguardo, basti pensare che il Sud Africa ha dichiarato la chiusura del paese prima dell’Inghilterra, nonostante avesse un numero di casi di gran lunga inferiore, e che, in paesi come l’Uganda, le scuole sono state chiuse prima che si fosse registrato un singolo caso di contagio. Come ulteriori punti di forza si possono, infine, citare l’esperienza che molti paesi africani hanno maturato nella gestione di crisi epidemiche, a partire dall’Ebola, e la speranza che il clima caldo possa contribuire a ridurre la diffusione del Coronavirus.
A fronte di questi aspetti vi sono una serie di debolezze sistemiche, soprattutto in campo sanitario ed economico, che rischiano di limitare grandemente la capacità di risposta degli Stati.
Da un punto di vista sanitario le carenze più gravi sono in termini di personale medico e di macchinari. Se in Europa vi è, in media, un medico ogni 300 abitanti, nell’Africa subsahariana il rapporto è di un medico per 5.000 abitanti circa; in alcuni paesi, come lo Zambia, il dato arriva ad un medico ogni 10.000 abitanti. Molti paesi africani hanno meno ventilatori e posti in terapia intensiva di un singolo ospedale occidentale. Se il Sud Africa ha all’incirca 1.000 posti in terapia intensiva, l’Uganda ne ha 130 ed il Malawi solamente 25. La Nigeria, su di una popolazione di oltre 200 milioni di persone, è in grado di disporre di circa 500 ventilatori mentre la Repubblica Centro-Africana ha 3 ventilatori per i suoi 5 milioni di abitanti.
Ad aumentare ulteriormente le difficoltà per i sistemi sanitari dei vari paesi africani vi è il fatto che strutture mediche, già di per sé scarse, sono concentrate prevalentemente nelle città. Ciò, sommato al sistema infrastrutturale del continente, rende particolarmente difficile, per il personale sanitario, raggiungere le persone nelle campagne. La necessità di limitare, per quanto possibile, la diffusione del virus nelle aree rurali è uno dei motivi che hanno spinto fin da subito molti governi, come nel caso della Nigeria per la città di Lagos, a varare lo stato di emergenza nelle principali città per evitare un possibile esodo da queste ai villaggi.
Nell’Africa subsahariana vi sono all’incirca 25 milioni di persone affette da HIV e non è ancora chiaro se queste saranno maggiormente a rischio di complicazioni qualora dovessero contrarre il Coronavirus. Quello che è certo è che, qualora i sistemi sanitari nazionali dovessero collassare, sarebbe molto più complicato per queste persone ricevere cure adeguate. Una serie di studi, riportati dall’Economist, hanno dimostrato come durante l’esplosione di Ebola in Africa occidentale il numero di morti per l’epidemia sia stato pari al numero di persone decedute perché non erano state in grado di ricevere cure per malattie quali HIV, Tubercolosi o Malaria. In alcune aree della Nigeria, il collasso del sistema sanitario durante l’epidemia di Ebola ha addirittura portato ad un aumento nei tassi di mortalità infantile e nel numero di morti per parto.
Alle deficienze dei vari sistemi sanitari vanno poi sommate le limitate capacità economiche e le difficoltà che molti Stati stanno riscontrando nell’imporre misure di distanziamento sociale.
Sotto quest’ultimo punto, va rivelato come le condizioni abitative ed economiche di chi vive nelle aree più povere delle grandi città, o dei circa 25 milioni di rifugiati presenti in Africa, non permettano di attuare norme di distanziamento sociale simili a quelle viste in Europa. La densità abitativa, il fatto che molte case siano composte da una sola stanza e la mancanza di strutture igieniche adeguate (ed esempio, a Makoko, uno dei principali slum di Lagos, meno del 20% delle case hanno l’allacciamento all’acqua potabile) sono tutti elementi che rischiano di favorire in maniera esponenziale la diffusione del virus.
Se a ciò si aggiunge che oltre 400 milioni di persone in Africa vivono con meno di 2 euro al giorno e che l’80% della popolazione africana lavora nell’economia informale, si capisce come per moltissime persone la scelta rischia di diventare quella tra contrarre il virus o morire di fame.
In questo contesto le capacità di risposta di molti paesi africani sono fortemente limitate dalle difficoltà economiche che questi stanno vivendo.
Già da qualche mese gli Stati del continente stavano accusando gli effetti causati dal Coronavirus sull’economia globale. La riduzione della domanda da parte di Cina, Europa e Stati Uniti, ha duramente colpito l’export dei paesi africani, l’80% del quale è rivolto a mercati fuori dal continente. Molte di queste esportazioni sono poi costituite da materie prime i cui prezzi, negli ultimi mesi, sono in gran parte scesi. In un simile scenario, i paesi più colpiti risultano essere i produttori di petrolio: questo in quanto, alla riduzione della domanda a livello mondiale si è sommato lo scontro tra Arabia Saudita e Russia che ha portato ad un repentino crollo dei prezzi del greggio. Ciò rischia di avere pesanti ricadute sui quei paesi i cui conti pubblici dipendono fortemente dall’esportazione di petrolio. Come esempio può essere citato l’Angola, dove il petrolio equivale al 90% delle esportazioni nazionali e ad un terzo del Prodotto interno lordo del paese.
Altrettanto duramente colpito dalla crisi, dovuta alla diffusione del Covid, è stato il settore del turismo, particolarmente importante per le economie di paesi come Kenya e Tanzania, mentre si stanno gradualmente prosciugando le rimesse estere che secondo la Banca Mondiale costituiscono oltre il 5% del Pil per 13 paesi dell’Africa subsahariana.
L’altro grande problema che rischia di limitare la capacità di risposta degli Stati è il debito pubblico accumulato da molti paesi nell’ultimo quindicennio. La Banca Mondiale riporta come tra il 2010 e il 2018 il debito pubblico dei paesi dell’Africa subsahariana sia cresciuto dal 40% al 59% del Pil. Sempre secondo la Banca Mondiale, 29 dei 47 paesi africani hanno la necessità di aumentare la tassazione, riducendo contemporaneamente le spese, per mantenere stabile il rapporto tra debito pubblico e Pil.
In questo contesto, in cui a fronte di un calo delle entrate fiscali vi è un aumento dei costi connessi ai prestiti, è virtualmente impossibile che i paesi dell’area siano in grado di varare dei programmi di stimoli economici anche lontanamente paragonabili a ciò che stiamo vedendo in Europa ed in America. Tant’è che il Primo Ministro etiope ha richiesto al G-20 un pacchetto di sostegno per l’Africa da 150 miliardi di dollari nonché una serie di aiuti alle aziende africane da parte della Banca Mondiale e un annullamento, o almeno una rimodulazione, dei debiti esistenti con il Fondo Monetario Internazionale.
L’Europa e gli Stati Uniti, oggi impegnati nell’affrontare la fase più acuta dell’epidemia di Coronavirus, dovranno cominciare a porsi il problema su come aiutare concretamente l’Africa a contenere la diffusione del Covid-19. Ciò andrebbe fatto non solo per motivi umanitari ma anche perché è molto probabile che nel prossimo futuro sarà in questo campo che si giocherà la competizione geopolitica tra Cina e Occidente per l’influenza sul continente.

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