Ritorna in modo prepotente nel dibattito politico, giuridico e culturale la proposta di inserire l’accesso a Internet nella Costituzione italiana. Il presupposto su cui si fonda questa esigenza, secondo i suoi fautori, risiede nel riconoscimento dell’accesso al web quale diritto fondamentale.
I diritti della Rete
Quello in esame non è un tema del tutto nuovo perché già nel novembre del 2010 il giurista Stefano Rodotà, pioniere dei diritti della Rete, propose di inserire un articolo, 21 bis, nella Costituzione, per rendere l’accesso al web un diritto fondamentale. Un argomento che è stato di recente ripreso dal premier Conte che lo scorso 6 aprile, a reti unificate, in occasione di una delle sue dirette sui social media, ha così affermato: «L’accesso ad Internet dovrebbe essere un diritto inserito in Costituzione». Ma la pensano tutti così? È proprio necessario questo formale riconoscimento? Sulla costituzionalizzazione del diritto di accesso ad Internet non tutti sono d’accordo.
Il diritto a Internet che già c’è
Il costituzionalista Michele Ainis, in un suo editoriale del 28 novembre su la Repubblica dal titolo “Il diritto a Internet che già c’è” spiegava che «non è necessario cambiare la Costituzione per garantire a tutti l’accesso al web (…) quando i costituenti scrissero l’art 21 non c’era ancora la Tv, eppure la garanzia della libertà d’espressione vi s’applica senz’altro, cosi come s’applica alla Rete (…) ogni Costituzione può sopravvivere al tempo in cui venne generata, può soddisfare le nuove esigenze di tutela, può disciplinarle attraverso un’interpretazione evolutiva delle proprie disposizioni». Di diverso avviso l’ex Ministro per la Semplificazione e la Pubblica amministrazione, Marianna Madia, per la quale «è ora che il diritto a Internet sia garantito dalla Costituzione: la pandemia ci sta mostrando che il digitale non è un tema di nicchia ma lo spartiacque fra inclusione ed esclusione sociale perché riguarda la scuola, il lavoro, la salute, l’informazione e la comunicazione».
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Accesso a Internet un diritto di tutti
Emerge comunque la consapevolezza che il web è sicuramente uno strumento che oggi consente l’effettivo esercizio di tanti altri diritti fondamentali, a prescindere che esso stesso possa esserlo o meno. Ma quanti sono i paesi europei che hanno già provveduto ad inserirlo nella propria carta costituzionale? Sino ad ora solo la Grecia con una deliberazione del 2008. In Italia la proposta di Rodotà venne recepita in un disegno di legge presentato nel corso della XVI Legislatura, recante l’introduzione del nuovo art. 21bis Cost. (“Tutti hanno eguale diritto di accedere alla rete Internet, in condizione di parità, con modalità tecnologicamente adeguate e che rimuovano ogni ostacolo di ordine economico e sociale”). La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire le violazioni dei diritti di cui al Titolo I, ma rimase lettera morta. Ma è davvero così necessario introdurre il riconoscimento del diritto di accesso ad Internet all’interno della Costituzione? Quali implicazioni giuridiche ne deriverebbero? E che senso avrebbe in un contesto nel quale dobbiamo ancora fare i conti con fenomeni quali l’analfabetismo digitale, il digital divide, la mancata digitalizzazione del sistema burocratico-amministrativo e le carenze strutturali legate alla connessione e alla sua copertura in tutti i territori? Il nostro Paese infatti fa registrare un deficit cognitivo legato alla mancanza di cultura digitale di base ma anche una carente disponibilità di reti a banda larga ultraveloce e in tale contesto l’inserimento nella Costituzione del diritto di accesso al web potrebbe apparire sempre di più una mera dichiarazione di principio, non sostenuta da un’azione politica e legislativa adeguata per colmare lacune e ritardi.
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La Carta dei diritti di Internet
Tentativi per una regolamentazione formale del web ve ne sono stati e, tra questi, sicuramente va citata la Carta dei diritti di Internet detta anche “Carta di Tunisi”, nata nel 2005 in Tunisia e proposta proprio da un gruppo di nostri connazionali. Essa partiva dall’idea che il pieno e libero accesso a Internet avrebbe giovato alla pace e al consolidamento delle democrazie nel mondo e favorito lo sviluppo e la condivisione attraverso le nuove tecnologie dell’informazione. Da lì la decisione dell’Onu dell’istituzione di Internet Governance Forum mondiale (IGF) per contrastare il digital divide e favorire processi di inclusione e di partecipazione nel web e, grazie ad esso, con azioni di contrasto allo stalking online, al cyberbullismo, all’hate speech, alla protezione delle infrastrutture web da virus, malware, spamming, attacchi terroristici e sabotaggi. Altro passaggio nella direzione di un riconoscimento giuridico di Internet sul piano dei diritti è quello appunto della “Dichiarazione dei Diritti” – nota come Carta dei diritti di Internet – adottata il 28 luglio 2015 dalla Commissione per i diritti e i doveri relativi ad Internet della Camera dei deputati, per «dare fondamento costituzionale a princìpi e diritti nella dimensione sovranazionale» cui non venne però dato seguito e per la quale, nelle sue parti essenziali: «l’accesso ad Internet è diritto fondamentale della persona e condizione per il suo pieno sviluppo individuale e sociale; ogni persona ha eguale diritto di accedere a Internet in condizioni di parità, con modalità tecnologicamente adeguate e aggiornate che rimuovano ogni ostacolo di ordine economico e sociale; il diritto fondamentale di accesso a Internet deve essere assicurato nei suoi presupposti sostanziali e non solo come possibilità di collegamento alla Rete; l’accesso comprende la libertà di scelta per quanto riguarda dispositivi, sistemi operativi e applicazioni anche distribuite; le Istituzioni pubbliche garantiscono i necessari interventi per il superamento di ogni forma di divario digitale tra cui quelli determinati dal genere, dalle condizioni economiche oltre che da situazioni di vulnerabilità personale e disabilità».
Internet, un mare ancora senza regole
Proposte di riconoscimento formale, giuridico e costituzionale del web che si sono succedute nel tempo e che, molto probabilmente, mal si conciliano con la natura libertaria e anarchica della Rete, il più grande spazio pubblico che l’umanità abbia mai conosciuto e che «non ha sovrano» come disse nel 1996 John Perry Barlow in occasione della Dichiarazione d’Indipendenza del cyberspazio. Un “mare” nel quale navigare con il numero minore di regole, contro ogni pretesa statalista, in modo autoreferenziale. E se ancora oggi la governance globale di Internet, al di là di aspetti tecnici e formali, rimane un miraggio, con gli Stati nazionali che rivendicano – con scarsi risultati – oneri e obblighi a carico delle più grandi piattaforme come Google, Facebook, Amazon, Microsoft, vuol dire che le sfide istituzionali sul web si svolgono ancora oggi in un mare aperto e con pochissime regole, financo quelle per un suo riconoscimento costituzionale.