La cultura dell’inclusione può essere un seme da coltivare ovunque, anche in azienda e sul luogo di lavoro, dove le persone trascorrono la maggior parte del loro tempo e vi portano le proprie individualità e diversità. Il nuovo libro del giornalista Claudio Barnini ha raccolto le esperienze di 10 aziende italiane e multinazionali sul tema della Diversity&Inclusion, tra gli Obiettivi dell’Agenda 2030 dell’ONU. Bitron, GXO, Mercer, Nespresso, Paramount, RINA, Technip, Thales Alenia Space e Unicredit insieme a IGT, hanno raccontato le proprie esperienze e le buone pratiche nei confronti dei lavoratori portatori di qualsiasi tipo di diversità. Il volume di Mason&Partners sarà disponibile in ebook gratuitamente su Amazon e Kobo.
Oggi l’argomento “Diversity&Inclusion” è divenuto una mission per molte aziende
L’autore Claudio Barnini spiega così titolo e motivazioni del volume: «Diverso. Quanto sento questa parola mi viene sempre in mente una risposta: diverso da chi? Perché in fondo siamo tutti diversi l’uno con l’altro. Perché c’è ancora chi pensa che essere diverso è un limite, una mancanza? E soprattutto perché nel mondo del lavoro i temi della parità di genere uomo-donna o quelli della razza o della religione restano ancora duri a morire? Per fortuna al giorno d’oggi l’argomento “Diversity&Inclusion” è divenuto una mission per molte aziende. Vediamo come il tema della parità di genere è maggiormente sentito nell’Europa occidentale, mentre le differenze religiose hanno il loro peso soprattutto nei paesi Arabi, così come il tema del colore della pelle resta prioritario nei paesi americani. Per meglio descrivere la situazione ho pensato di coinvolgere società di respiro nazionale e internazionale, proprio perché le problematiche sono diverse. Secondo un recente sondaggio, in Italia ancora oggi solo il 49,6% della popolazione afferma di essere ben informato su DE&I (ma il 7% non lo ha sentito mai nominare nel dibattito pubblico), mentre la conoscenza di questi temi è superiore nelle aziende dove la percentuale raggiunge il 53,7%».
Inclusività, l’Italia al 24° posto su 49 Stati presi in considerazione, ultima nell’Europa occidentale
Eppure, c’è ancora molto da fare: l’Italia è indietro se si parla di tutela dei diritti umani e civili della comunità Lgbt+, delle minoranze etniche e religiose, degli immigrati. I dati contenuti nel report annuale redatto dall’ILGA (International Lesbian and Gay Association) ci dicono che l’Italia si colloca al 24° posto della classifica (su 49 Stati presi in considerazione), ultima nell’Europa occidentale. Abbiamo un tasso del 25% per il rispetto dei diritti umani delle persone Lgbt+, in confronto al dato medio europeo del 48%. «Diversità, equità ed inclusione sono parole che sentiamo – e continueremo a sentire – sempre più spesso» spiega Gian Maria Fara, Presidente dell’Eurispes che ha firmato la prefazione del libro. «Negli anni, questi termini si sono consolidati attraverso le battaglie di attivisti e minoranze tanto che, oggi, l’inclusione rappresenta uno degli elementi chiave nella scelta del lavoro. A livello sociale questo passo in avanti è stato possibile grazie ad una serie di concause individuabili nelle trasformazioni demografiche e del mercato del lavoro; nell’avvento della “Generazione Z”, ossia i nati tra il 1995 e il 2010 – portatori di valori nuovi come la tendenza all’inclusività, il multiculturalismo e la sostenibilità». «Abbiamo scelto questo tema proprio perché attenti ai Determinanti Sociali di Salute (SDOH): condizioni degli ambienti in cui gli individui nascono, vivono, lavorano, imparano che hanno un impatto sulla salute e sul benessere» precisa Johann Rossi Mason, editrice del volume e sociologa: «Pensiamo ad esempio alla povertà, alla residenza in luoghi insicuri, a condizioni ambientali. Dal colore della pelle al genere, all’età, al credo religioso, alle condizioni di salute. Un circolo chiuso se pensiamo che la discriminazione, il pregiudizio e lo stigma hanno mostrato di determinare problemi di salute psicologica e fisica».
L’Italia è indietro nella tutela dei diritti umani e civili della comunità Lgbt+, delle minoranze etniche e religiose
Fortunatamente in Italia il legislatore con il D. Lgs. 81/2008 ha normato “il dovere di valutare ‘tutti i rischi per la sicurezza, ivi compresi quelli riguardanti lavoratori esposti a stress lavoro- correlati” e a particolari categorie che non possono essere riferite al soggetto neutro che coincide con il maschio adulto in salute di pelle bianca, un “tipo ideale” di lavoratore che abbiamo in mente, ma che non rende affatto conto di tutte le individualità. Si pensi ad esempio a persone fragili per ragioni fisiche o socioeconomiche, soggette a discriminazioni perché considerate meno produttive, marginalizzate. Secondo una ricerca dell’APA (American Psychological Association) quasi la metà degli adulti che non hanno mai subito discriminazioni riferisce una salute buona o molto buona, dato che scende al 31% tra quelli che sono stati discriminati. Gli adulti Lgbt+ discriminati inoltre hanno totalizzato un livello di stress medio di 6.4 punti (su una scala di 10) rispetto a 5.0 per gli adulti binari e hanno un rateo di depressione intorno al 30%. E sappiamo che lo stress influisce sulla salute a medio e lungo termine. «Esiste un peso dello stereotipo, un fattore socioculturale dal risvolto emotivo, identificato dallo psicologo sociale Steele, nel 1999» interviene la sociologa Luciana D’Ambrosio Marri. «È il fenomeno per cui le persone che appartengono ad un gruppo socialmente svantaggiato vivono uno stato di ansia che deriva dalla paura di confermare lo stereotipo, dell’aspettativa della discriminazione». Ma esistono anche ‘circoli virtuosi’: come ha certificato l’edizione 2021 del “Diversity brand index” sulla grande importanza del tema dell’inclusione anche tra i consumatori, l’88% della popolazione è più propensa verso i brand più inclusivi e la differenza tra i ricavi di una marca inclusiva rispetto ad una non inclusiva favorisce la prima per il 23%.