Di fronte alla pandemia, l’Europa è incerta e sbandata. Le sue debolezze, il suo vuoto confusionale, la sua assenza sulla scena mondiale, risultano evidenti e preoccupanti. Non ha gli strumenti per dare risposte efficaci all’emergenza dal punto di vista sanitario, economico e sociale. Tanto meno è in grado di indicare soluzioni in prospettiva, a medio e lungo termine. Le mancano gli strumenti, la volontà politica e la cultura per farlo. Difficile che le persone possano trovare riparo solo sotto l’ombrello della religione, per secoli comodo rifugio e rimedio ad ogni cosa. A 75 anni dalla fine della guerra, nemmeno di fronte ad una pandemia, l’Unione, meglio alcuni paesi, sono in grado di indicare e di “giustificare” la “ragione” dello stare insieme. Anzi. La decisione della Corte Costituzionale tedesca di questi giorni va in senso contrario. Ci ha ricordato, non trovando nulla di meglio da dirci, che in Europa non si può costruire una Unione democratica, perché manca “un popolo omogeneo” (incredibile, ma fino ad oggi cosa siamo stati a fare?). Perciò, il diritto nazionale (tedesco) è prevalente su quello dell’Unione, perché la Germania naturalmente il “popolo omogeneo”, da tutelare, ce l’ha. I giudici della Corte, non un partito xenofobo, hanno utilizzato i princìpi giuridici con un approccio ideologico, come la Germania fa spesso anche in campo economico e contabile. Una decisione, reiterata, molto grave, che rischia di far saltare il lavoro della costruzione europea fatto sinora.
Oggi di fronte alla crisi ed alle paure che la pandemia sta generando si fa un gran parlare, spesso vacuo. Secondo lei, ci sono le condizioni per un ripensamento serio sul modo di concepire la vita ed i suoi valori? Ciò potrà favorire l’introduzione di regole nuove nel rapporto tra gli attori a livello globale?
Ci sono due modi di guardare all’Europa: quelli che la condannano per le sue manchevolezze e finiscono per fare il gioco di chi la vuole cancellare come Unione e quelli che vedono le comuni radici, che si concentrano sulle somiglianze più che sulle diversità, che amano le cose realizzate, come, per esempio, l’ottimo programma Erasmus, per non dire della pace ottenuta dopo secoli di guerre, e per non dimenticare la moneta forte, nonostante le tante critiche e i tanti malumori. Io penso che, se vogliamo bene all’Europa, dobbiamo cercare di mettere in luce le sue qualità, malgrado le difficoltà e i difetti. Dobbiamo suscitare nei giovani la voglia di partecipare. Se tutti criticano l’Europa, sia da destra che da sinistra, è chiaro che poi nascono le voglie di andare via. Il che sarebbe un gravissimo errore storico. Perciò, l’Europa ci dovrà essere. In questa prospettiva, sicuramente saprà fare la sua parte.
In questo scenario drammatico, com’era prevedibile, emergono in modo chiaro la divisione e l’assenza dell’Europa, nonostante i suoi generosi tentativi in corso. Questo può portare ad un definitivo distacco dell’opinione pubblica dalle Istituzioni attuali, meglio dalla Germania, che respinge qualunque principio di solidarietà, si oppone al processo di integrazione politica ed alla nascita di una vera Unione? Uno scenario di distruzione che dobbiamo accettare passivamente o si può ipotizzare una Unione senza la Germania per evitare la fine di tutto?
Lei dà come scontata la mancanza di adesione della Germania al processo di integrazione della Unione, ma non è così. Chi la pensa in questo modo è una piccola minoranza, anche se istituzionalmente potente. Io sono stata tante volte in Germania e ho potuto constatare che la maggioranza dei cittadini è molto attaccata all’Europa, si considera amica dell’Italia e tiene all’Euro. Non diamo troppo importanza ai catastrofisti. Non mettiamo ogni volta in discussione l’Europa, anche se con l’intento sincero di volerla migliorare. L’Unione già c’è e va difesa a tutti i costi, con amore e fiducia, oltre che con spirito critico, puntigliosamente critico.
Gli/le intellettuali, le donne e gli uomini di pensiero, della cultura, ignorati e spesso assenti dal dibattito, salvo eccezioni, che cosa possono fare per evitare tale “rottura” e/o per salvare quel che resta dell’Unione?
Gli intellettuali sono i più attaccati all’Europa. Sono coloro che da giovani hanno utilizzato lo Schengen per viaggiare in altri paesi, che hanno studiato le lingue, che a volte si sono fermati a lavorare nei paesi vicini. Se lei va a guardare, nel campo della scienza, della ricerca, delle arti, del linguaggio, molti italiani sono ormai parte del tessuto connettivo europeo. Non c’è bisogno di fare i portabandiera. Anche se in forma poco visibile e poco riconosciuta, costoro esprimono con il proprio corpo l’attaccamento alla Unione. È con fiducia in questi italiani che dobbiamo pensare al futuro dell’Europa.
Carmelo Cedrone è il Coordinatore del Laboratorio Europa