*Da Vincenzo Macrì, autorevole ex magistrato, riceviamo e volentieri pubblichiamo.
Il giurista ed ex giudice della Corte Costituzionale, Sabino Cassese, ha di recente pubblicato un libro dal titolo Il governo dei giudici, nel quale egli affronta molti dei problemi che riguardano la giustizia italiana. Il termine “giudici” deve essere inteso come “magistrati”, dal momento che buona parte della trattazione si occupa dei pubblici ministeri e, in misura minore, dei magistrati giudicanti. Va detto che non si tratta di un libro che si limita a descrivere l’attuale situazione della giustizia italiana, in modo “neutro”. Al contrario, l’autore raccoglie tutti i pregiudizi, le critiche, i luoghi comuni, a carico della categoria, senza preoccuparsi di dimostrarne il fondamento oggettivo.
Nella tripartizione delle funzioni statali dei poteri, in legislativo, esecutivo e giudiziario, come prevista nell’Esprit de loi di Montesquieu, quello giudiziario risultava il più debole essendo limitato dal momento che «les juges ne sont que la bouche qui prononce les paroles de la loi ; des êtres inanimés qui ne peuvent en modérer ni la force ni la vigueur»; essi hanno solo l’onere di applicare la legge ma non di interpretarla. In questo senso, il filosofo francese parla di potere “nullo”, in quanto privo di iniziative autonome.
La nostra Carta costituzionale, all’art. 104, stabilisce che «La magistratura costituisce un ordine indipendente da ogni altro potere». La formula adottata dai costituenti, pienamente rispettosa dell’autonomia e dall’indipendenza “da ogni altro potere”, implicitamente riconosce all’ordine giudiziario la qualifica di “potere”. E aggiunge, al secondo comma dell’art. 101, «i giudici sono soggetti soltanto alla legge». Principio importantissimo perché se l’indipendenza è quella rispetto ad ogni altro potere, l’autonomia riguarda l’indipendenza interna, quella rispetto agli organi di vertice della magistratura. Ogni organo giudicante, dal giudice di pace a quello monocratico, agli organi collegiali di primo e secondo grado, nel momento in cui giudica non ha altro superiore gerarchico se non la Costituzione e la legge.
L’obbligatorietà dell’azione penale è sancita dall’art. 112 della Costituzione. Con questa norma i padri costituenti intesero togliere ai pubblici ministeri ogni margine di discrezionalità e ciò per due motivi: il primo è quello di assicurare la parità di trattamento di tutti i cittadini, in applicazione dell’art. 3 della Costituzione; il secondo è quello che la discrezionalità si risolve in una forma di subordinazione del pubblico ministero, nella migliore delle ipotesi, al Parlamento, nella seconda al Potere esecutivo (Ministro della Giustizia), come peraltro avviene anche nella maggior parte dei paesi di democrazia occidentale. Cassese definisce l’art. 112 come “la favola” dell’obbligatorietà dell’azione penale, ma se è vero che alle Procure giungono enormi quantità di denunce, esposti, segnalazioni, è pur vero che solo quelle che hanno un minimo fondamento vengono iscritte nei registri delle notizie di reato, sia contro noti sia contro ignoti.
L’art. 107 della Costituzione, richiamato dall’autore, «rimanda alle norme dell’ordinamento giudiziario (e quindi alla legge ordinaria) il compito di stabilire le garanzie dei pubblici ministeri». Va precisato però che restano ferme le garanzie costituzionali assicurate dall’art. 112, di cui abbiamo già parlato, e dall’art. 107 (inamovibilità dei magistrati), nonché le garanzie previste dall’art. 1 dell’ordinamento giudiziario approvato con D.Lvo n. 106 del 2006, circa i rapporti dei sostituti e degli aggiunti con il titolare dell’ufficio di procura.
«Familismo ed ereditarietà hanno aumentato separatezza ed autoreferenzialità». Quanto al familismo, Cassese sa bene che l’art. 106 della Costituzione stabilisce che «le nomine dei magistrati hanno luogo per concorso» e non si può certamente impedire ai figli, o comunque agli stretti congiunti di un magistrato, di sostenere il concorso di accesso alla magistratura (il più severo, insieme a quello per notaio, rispetto a tutti gli altri concorsi per accedere alla carriera direttiva nella Pubblica amministrazione). Peraltro, la nomina per concorso costituisce una ulteriore forma di tutela di indipendenza e autonomia della magistratura, essendo essa fondata sul solo criterio meritocratico. Ciò ne consente l’accesso a tutti i cittadini, senza distinzione di censo, di lingua, di religione, di sesso e di razza. Quanto alla ereditarietà, si tratta di un termine usato del tutto a sproposito, dal momento che non vi è nessuna possibilità che un magistrato possa trasmettere ai figli il suo posto, con testamento o altra forma di successione.
Altro punto sul quale è doveroso dissentire è l’affermazione secondo la quale la progressione per anzianità e a ruoli aperti sarebbe priva di sistemi di valutazione. Non è così. Ogni quattro anni tutti i magistrati, compresi quelli che ricoprono incarichi direttivi, viene sottoposto a valutazione di professionalità, che passa prima dai Consigli giudiziari a livello distrettuale e poi al Consiglio Superiore della Magistratura. Una eventuale valutazione negativa, se ripetuta per la seconda volta, comporta l’esclusione dal servizio. A loro volta, anche i capi degli uffici la cui durata dell’incarico è ormai quadriennale, prorogabile una sola volta, se alla fine del quadriennio non ottengono la valutazione positiva, e quindi la conferma per i quattro anni successivi, retrocedono alla qualifica originaria. Nella valutazione di professionalità si tiene conto dei seguenti parametri: indipendenza, imparzialità ed equilibrio; capacità; impegno; diligenza; laboriosità. Nel corso della carriera di un magistrato viene ripetuta per sette volte, cioè sino al ventottesimo anno di anzianità, dopo il quale, in caso di valutazioni positive, si consegue il livello massimo di idoneità alle funzioni direttive superiori.
Indipendenza, imparzialità ed equilibrio sono i cosiddetti “prerequisiti”: è cioè necessario che, nel periodo preso in considerazione, non risultino elementi o fatti tali da incidere sulle caratteristiche essenziali dell’attitudine professionale del magistrato, e cioè la capacità di esercitare le funzioni giurisdizionali in maniera indipendente da ingerenze interne o esterne, in posizione di terzietà rispetto ai soggetti coinvolti nel processo, e con atteggiamento equilibrato.
La capacità riguarda la preparazione giuridica, la tecnica di redazione dei provvedimenti, le tecniche di conduzione delle indagini, l’organizzazione del proprio lavoro, le modalità di celebrazione delle udienze, il rapporto con i collaboratori, il coordinamento con altri uffici.
La diligenza riguarda la presenza in ufficio e/o in udienza, il rispetto dei termini previsti per la redazione di atti e provvedimenti o per il compimento di attività giudiziarie, la partecipazione alle riunioni dell’ufficio.
La laboriosità riguarda la quantità di procedimenti trattati, i tempi di trattazione degli stessi, la collaborazione alle attività dell’ufficio di appartenenza.
L’impegno riguarda la collaborazione alla soluzione di problemi organizzativi o giuridici, la disponibilità alla sostituzione di magistrati assenti, la partecipazione ai corsi di aggiornamento.
C’è chi si sorprende che una larga maggioranza di magistrati possegga sia i prerequisiti di indipendenza, imparzialità ed equilibrio, sia i requisiti di capacità. diligenza, laboriosità e impegno. Evidentemente, non sanno che la produttività pro capite dei magistrati italiani è la più alta tra i paesi europei, in presenza di una elevatissima sopravvenienza sia in materia civile (dovuta alla elevatissima litigiosità anche per questioni di poco valere e nonostante sia ormai obbligatorio il preliminare tentativo di conciliazione) sia penale, caratterizzato da reati di particolare gravità, come associazione di tipo mafioso, traffico internazionale di sostanze stupefacenti, tratta di esseri umani, e altro ancora. Da mettere in rilievo che le motivazioni delle sentenze penali redatte dai giudici di altri paesi si riducono a poche pagine, riguardanti solo la narrazione del fatto, senza alcuna motivazione sui problemi di diritto, né in ordine alla quantificazione della pena. In Italia la frequenza dei “maxiprocessi”, così definiti i procedimenti con centinaia di imputati e altrettante imputazioni, richiede la redazione di sentenze che arrivano alle diecimila pagine.
Nessuna progressione automatica, dunque, ma ben sette valutazioni di professionalità. L’interesse a conseguire risultati positivi è rafforzato dalla previsione che ad ogni superamento di livello (giudice, consigliere d’appello, consigliere di Cassazione, presidente di sezione di Cassazione), corrisponde un adeguamento della retribuzione, che non corrisponde alla funzione esercitata in concreto ma al livello dell’idoneità raggiunta. Non solo, in presenza di ricorrente ritardo nel deposito delle sentenze senza giusto motivo, è prevista l’apertura di un procedimento disciplinare davanti al Consiglio Superiore della Magistratura, molto severo su tale tipo di infrazioni, che si conclude con sanzioni che vanno dalla censura alla destituzione.
La versione dello scarso rendimento e dell’inerzia dei magistrati (tranne poche eccezioni) scade a pretestuoso argomento di critica che non trova alcun riscontro, e le eccezioni, come visto, sono sanzionate sia a livello dell’avanzamento di carriera che disciplinare.
Altro dato ricorrente nelle polemiche sulla magistratura italiana è quella delle “porte scorrevoli”, che indica la frequenza del passaggio dei magistrati ad impegni politici e, al termine di questi, il ritorno all’attività giudiziaria. Se ne parla come se si trattasse di un numero assai elevato, a sottolineare la politicizzazione della magistratura e quindi della giustizia. I numeri non confortano questa convinzione. A quanto risulta dall’esperienza, i magistrati che sono passati ad attività politica sia in sede parlamentare che di Amministrazioni locali, molto raramente sono rientrati nei ruoli della magistratura. Per citare gli esempi più noti di mancato rientro, vanno ricordati: Di Pietro, Emiliano, De Magistris, Violante, Imposimato. Se il diritto di elettorato passivo è sostenuto da garanzia costituzionale, la possibilità del rientro è prevista per tutte le professioni. Per la magistratura il rientro comporta cambio di sede e di funzioni, essendo interdette quelle monocratiche (e dunque tutte le funzioni requirenti).
L’aumento progressivo delle ipotesi di reato (il “panpenalismo”) ha certamente contribuito ad aumentare la sopravvenienza delle notizie di reato e appesantito il lavoro delle procure. Sorprende, tuttavia, il commento che ne fa Cassese quando afferma che il fenomeno «avrebbe aperto nuove strade ai magistrati dell’accusa», divenuti «sempre meno dipendenti e, in qualche caso, completamente indipendenti dal potere esecutivo». Cassese sembra rimpiangere la dipendenza. Ma perché, prima lo erano stati e in che misura? E quale sarebbe il nesso tra il panpenalismo e la dipendenza dal potere esecutivo?
Cassese coglie, a ragione, la elevata esposizione mediatica di alcuni pubblici ministeri e, se esse sono ricorrenti, è giusto che sia il CSM a intervenire. Paradossalmente, è stata la riforma del Codice di procedura penale del 1989 a modificare radicalmente il ruolo del pubblico ministero, che nel vecchio Codice non poteva prolungare le indagini per oltre 40 giorni (istruzione sommaria), trascorsi i quali doveva chiedere al giudice istruttore o la sentenza di proscioglimento, ovvero l’ordinanza di rinvio a giudizio. Il ruolo più importante era quello del giudice istruttore, il vero protagonista dell’“istruttoria formale”, che poteva estendere le indagini anche nei confronti di soggetti e di vicende non presenti nella fase di competenza del pubblico ministero. La figura del giudice istruttore è tuttora prevista negli ordinamenti processuali della maggior parte dei paesi dell’Europa continentale, abbandonata nel nostro Paese in quanto ritenuto figura tipica del processo inquisitorio, figura ignota nel processo accusatorio di rito anglosassone.
Cassese chiude segnalando come «dei temi morali vengono investiti innanzitutto i magistrati, i tutori della virtù, che ne divengono i curatori ufficiali, operando quindi come la longa manus della politica moraleggiante». Ridurre i magistrati a “curatori ufficiali” della virtù, al controllo della virtù, è offensivo attribuendo loro funzioni presenti nelle dittature totalitarie e non certo nelle democrazie.
Prosegue dicendo: «Dalla magistratura provengono proposte continue di ampliare l’elenco dei delitti o di ampliarne le funzioni (…); poiché questo scambio avviene attraverso l’opinione pubblica e i suoi mezzi, assicura anche a singoli magistrati una notorietà altrimenti impossibile e apertura a carriere politiche». E ancora: «per il posto nuovo da essi (i magistrati) occupato sia nell’opinione pubblica, sia tra le forze politiche(…). Il posto, quindi, della magistratura nella Costituzione materiale è ben diverso da quello prefigurato dalla Costituzione formale». «In particolare, avrebbero guadagnato prominenza i magistrati dell’accusa». Ma «la preminenza acquisita dai magistrati è andata a discapito della loro indipendenza, a causa della politicizzazione endogena che ha prodotto».
Il lavoro di Cassese, sul quale sono state espresse legittime osservazioni e dissenso su alcuni passaggi, è tuttavia utile per l’apertura di un dibattito più ampio, sul quale questo contributo vuole dare inizio.