“Mafie: Cosa Unica”. Intervista al Procuratore Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, Federico Cafiero de Raho

Esistono diverse mafie, organizzazioni criminali, oppure siamo di fronte ad una sola mafia che agisce all’unisono? E quanto, terrorismo e mafia, sono distanti? A queste domande rispondono l’esperienza e la conoscenza di Federico Cafiero de Raho, Procuratore Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, che dopo aver lavorato sul fronte del contrasto al Clan dei Casalesi, dopo la Procura di Reggio Calabria, guida la Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo. Il Procuratore Cafiero de Raho ha una particolare attenzione verso la questione dei beni confiscati, segno concreto della risposta dello Stato. Un dialogo, inserito nella rubrica “Cosa vuol dire mafia?”, che vuole aggiornare i concetti che delineano le forme e le azioni delle mafie e la risposta necessaria delle Istituzioni che deve saper tenere il passo con le mutazioni veloci della criminalità organizzata e la sua capacità di proiezione globale.

Dalla sua decennale esperienza sul campo, dalle aule di tribunale fino alla guida della Direzione Nazionale Antimafia, quale peculiare caratteristica delle mafie ha visto evolversi e quale la preoccupa maggiormente? Allo stesso tempo, come ha visto cambiare la risposta dello Stato a questa continua sfida mafiosa, quali le innovazioni di cui abbiamo bisogno? 

Le mafie hanno iniziato a controllare i territori d’origine attraverso organizzazioni dotate di una struttura militare, capace di incutere violenza, con minacce e intimidazione. I tradizionali reati di mafia erano rappresentati da usura, estorsioni, violenze private, le forme più rudimentali per imporre la loro presenza e il loro potere. Dagli anni Settanta le mafie hanno iniziato a comprendere che avevano bisogno di sviluppare forme organizzate per il reinvestimento del danaro proveniente dalle attività illecite. Reinvestire i proventi criminali significava strutturarsi sul territorio per esprimersi con soggetti economici propri, contigui. Originariamente le mafie si servivano di parenti, persone con rapporti di frequentazione poi anche su questo fronte hanno provveduto a trovare forme più evolute: intermediazione, mediazione, interfaccia capace di mimetizzare la provenienza criminale dei capitali. La struttura economica e imprenditoriale si è andata ad accompagnare a quella militare. Quest’ultima ha operato sempre più con forme indirette di coazione: ad alcune organizzazioni bastano poche parole, a volte anche forme lievi e indirette di intimidazione, così da rendersi immediatamente comprensibili. Ricordo, per esempio, Antonio Piromalli quando organizza la propria struttura in modo da chiedere alle società che si occupano di villaggi turistici, di utilizzare le sue imprese di pulizie, servizi e forniture. Che cosa avviene in quel momento? Le società immediatamente comprendono e accettano, solo un amministratore prova a rifiutare, perché ha già questo tipo di società di servizi e, loro (i mafiosi) rispondono: “Sì, ma noi siamo i garanti della Calabria”. Bastano queste parole per far comprendere qual è la loro posizione e chi sono. A questo punto subito viene accettata la proposta. Lo sviluppo delle mafie è, dunque, sul fronte economico. Avvalersi di reti di società di servizi, falsa fatturazione, forniture a prezzi ribassati, attività che permettono di entrare in contatto con ulteriori società e quindi infiltrarsi sempre più profondamente e aggregare società che apparentemente sono sane, e che usano false fatturazioni per migliorare i loro profitti. Questo è motivo di profonda preoccupazione: l’inquinamento dell’economia legale. Cartelli economici che servono per appalti pubblici, avere soggetti economici che servono ad allargare la base per poter presentare diverse offerte. Le indagini hanno evidenziato la capacità di gestire appalti attraverso una vera e propria cabina di regia. Questo significa avere tante società a disposizione, riuscire a vincere le gare per gli appalti e permettere la rotazione tra i diversi soggetti economici che partecipano. Tutti ne traggono vantaggio, meno i cittadini ovviamente. La modernizzazione delle mafie si completa nel reinvestire i capitali in soggetti economici deboli; in quei soggetti che non trovano più un accesso al credito bancario, per la crisi per esempio. Questi soggetti quando entrano in contatto, attraverso intermediari, con l’area mafiosa, attingono al patrimonio mafioso, finiscono per diventare soggetti controllati dai mafiosi. Così le mafie non hanno bisogno di firmare atti, non hanno bisogno di documenti; al contrario, occultano comportamenti illeciti con lo schermo di soggetti solo apparentemente sano, entrano così nel mercato dell’economia legale. Questo è veramente preoccupante. A tutto questo si risponde con le segnalazioni dal territorio, dalle stesse associazioni di categoria, con la segnalazione delle transazioni sospette. I tavoli interistituzionali sono fondamentali, come quelli che la DNAA ha con la Guardia di Finanza, con l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, con l’UIF della Banca d’Italia, diverse specializzazioni che permettono di avere risultati concreti perché fanno lavorare insieme le diverse competenze e capacità.       

La sua persona ha una caratteristica particolare: da una parte mette in luce il male prodotto dalle mafie, ma dall’altro è sempre presente tra la società civile che reagisce e mi riferisco al suo sostengo alla questione dei beni confiscati, soprattutto in provincia di Caserta. Che cosa rappresenta per lei un bene confiscato? 

Un bene confiscato è la dimostrazione più chiara dei passi in avanti che lo Stato riesce a fare nella lotta alle mafie, nei territori che erano controllati dalla criminalità organizzata. Soprattutto, significa restituire alla società civile quello che le è stato tolto. Quello che è bene comune di tutti. Il bene confiscato è il simbolo dell’efficienza della risposta dello Stato, efficienza del contrasto e degli strumenti che siamo riusciti a generare. Inoltre, è il simbolo chiaro ed evidente della capacità della Magistratura e delle Forze dell’ordine nel saper intervenire in questa lotta alle mafie facendo arricchire con questi beni la società civile e impoverendo le mafie. I beni confiscati sono lo strumento più moderno, efficace del contrasto alle mafie ma, allo stesso tempo, sono anche un simbolo visibile di questa lotta, dell’azione dello Stato al fianco dei cittadini. Essi devono essere tutelati e protetti, sorretti, perché un bene confiscato abbandonato è una sconfitta per la legalità.

L’antimafia, movimento di coscienze e di idee, di risposta gentile e ferma alla violenza della prevaricazione delle mafie è un elemento fondamentale della nostra democrazia. Di cosa ha bisogno per essere sempre capace di andare avanti e non diventare autoreferenziale? 

L’antimafia è il sentire della società civile, sono i valori della nostra Costituzione che ci fanno riconoscere nell’azione delle mafie il nemico della libertà che è il diritto fondamentale, quello da cui nasce la capacità di autodeterminarsi. La capacità di libera iniziativa economica, anche. L’antimafia è proprio il sentire l’esigenza di reagire alle presenze mafiose. Non è un movimento o movimenti antimafia, è il sentire della società civile tutta. È un qualcosa di più importante, perché è un pensiero che interpreta il sentire civile che vuole condurre le mafie in un recinto sempre più stretto fino ad annientarle, annullarle. Quando si parla di antimafia, è necessario rispettare l’impegno di tutti coloro che si muovono su questo piano, cioè quello di restituire libertà ai territori. È vero anche che sono emerse illegalità in alcune associazioni, come in ogni settore della vita civile, ma questo non può e non deve mortificare lo sforzo comune. L’antimafia deve essere un sentire, un sentire che è presente nello Stato, nelle Istituzioni, nei giovani, nelle scuole dove si sta portando avanti una formazione specifica. Una volta si chiedeva chi fosse quel magistrato ucciso e non si riusciva a dare un nome, una risposta, oggi tutto questo è cambiato. Oggi c’è conoscenza della storia, della lotta alle mafie. Un’educazione civile profonda che poi è necessaria per muoversi nella società e nell’osservanza delle sue regole. Il termine “antimafia” lo si porta dentro, come un organo nel nostro corpo: questo ci serve per fare le scelte migliori, ci spinge a seguire le regole, il rispetto delle persone, i valori che la nostra Costituzione ci insegna. Sotto questo profilo il nostro Paese è una guida per tutti i Paesi europei.   

La mappa delle mafie è sempre fluida, a fronte di chi le vede quasi immobili nelle loro definizioni; dal suo osservatorio privilegiato, che cosa sta accadendo e quali trasformazioni sono in atto?

La mafia, la ’Ndrangheta, la camorra, la mafia foggiana, mafia del Gargano, nascono su specifici territori per poi proiettarsi altrove. Questo è il segno della loro forza, costituire proprie cellule che sono cosche, ’ndrine, clan in altre regioni d’Italia. A questo segue la proiezione delle strutture economiche che operano su tutto il territorio nazionale per reinvestire e occultare i capitali accumulati. Quindi, da una parte il controllo del territorio di provenienza anche attraverso l’uso della forza, e dall’altra parte il controllo dell’economia nei territori che vengono infiltrati. Il salto di qualità è quando si superano i confini nazionali, quando la proiezione è di livello europeo e oltreoceano. America del Nord tanto quanto l’America del Sud: ecco che diventa chiara la proiezione globale delle mafie. Una rete criminale che non ha confini o frontiere. Le forme che utilizzano sono le più avanzate del mondo finanziario. Società costituite in paesi che non hanno legislazioni stringenti nel contrasto alla criminalità organizzata e alle sue infiltrazioni nell’economia. Si muovono in territori dove la legge è più debole. Noi dovremmo parlare di paradisi “normativi”, piuttosto che di paradisi “fiscali”. Sono quei paesi dove le mafie hanno una specifica capacità nel riuscire a piegare le norme o aggirarle, sfruttando le falle dei sistemi internazionali. Inoltre, proprio i più recenti sviluppi giudiziari, ci fanno intravedere che questa distinzione di cosa nostra, ’ndrangheta, camorra come entità criminali diverse e separate quasi non corrisponde più alla realtà. Gli esempi si ricavano dalle indagini, dalle evidenze investigative in più occasioni: per esempio, nel traffico di cocaina le diverse organizzazioni operano insieme pro quota. Allo stesso modo nel settore del gioco online: stessi soggetti esperti nel settore finiscono per essere riferimenti per la mafia, la camorra e la ’ndrangheta. Anche nel settore del riciclaggio di denaro accade la stessa cosa. Emerge un quadro di evidenze che dimostra come le diverse mafie operano assieme, come unica entità. Questo ci dice che è necessario un ulteriore passo in avanti, gli uffici e gli organi deputati al contrasto devono condividere informazioni e lavorare sempre di più in sinergia. Sempre di più, le Direzioni Distrettuali hanno esigenza di condividere le conoscenze, anche a livello internazionale, così come i nostri investigatori con le altre polizie dei diversi paesi. Le mafie si combattono con la più ampia conoscenza, la più ampia condivisione che sia propria di tutti coloro che operano sul territorio nazionale; in questo senso anche le banche dati sono fondamentali.

Dal 2015 la Direzione ha competenze su “Trattazione di procedimenti in materia di terrorismo, anche internazionale”. Quanto sono distanti, oppure vicini, i mondi delle mafie e del terrorismo e quanto complesso è affrontare questo fenomeno che rimane sconosciuto alla maggior parte delle persone? 

Nel 2015 è stato necessario ampliare l’azione della Direzione Nazionale al terrorismo per poter adottare il medesimo modello organizzativo che consentiva la circolazione delle informazioni tra le Procure distrettuali antiterrorismo. Al tempo stesso, il collegamento investigativo e il coordinamento investigativo. Si è voluta trasferire la metodologia del contrasto alle mafie usandola al meglio per il contrasto al terrorismo, nel momento di maggiore necessità, nel momento in cui l’ISIS si muoveva con grande forza e presenza anche sul territorio europeo e nazionale, attraverso forme di comunicazione in Rete che creava aggregazione: c’era l’urgenza di operare con un sistema efficiente. Un passo in avanti importante, anche perché il sistema che vige nel circuito giudiziario antiterrorismo ha tratto, dal sistema che vige nel contrasto alle mafie, la condivisione delle informazioni. Gli uffici e le Procure distrettuali antiterrorismo, così come facevano già le Direzioni distrettuali antimafia, inseriscono in banca dati gli elementi delle indagini in corso. Questo consente di avere informazioni utili per contrastare il terrorismo sia nazionale sia internazionale. Quindi è stato applicato un modello, quello della condivisione di informazioni e delle conoscenze. Con la possibilità di intervenire con un collegamento investigativo tra i diversi uffici, questo modello consente di dare risposte immediate a livello internazionale. I dati raccolti ci permettono di rispondere immediatamente alle richieste degli altri paesi, richieste su soggetti che magari erano transitati per l’Italia, approfondimenti su gruppi e attività in corso. Riuscire ad avere un collegamento immediato con altri paesi in momenti di emergenza, ha avuto nel modello Antimafia un modello efficace. Dire che il terrorismo e la mafia sono due settori completamente diversi, è circostanza che non può essere affermata con certezza. Soprattutto laddove, proprio in questi anni, gli approfondimenti che riguardano la partecipazione di soggetti coinvolti in indagini di mafia si ritrovano anche in fatti o contesti di tipo terroristico. Alcuni esempi emergono proprio da recenti indagini e lo evidenziano. Forse, fino a qualche anno fa si poteva dire che mafia e terrorismo erano due aree distinte; oggi, un’affermazione di questo tipo non è più consentita.  

L’intervista è disponibile anche in inglese.

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