Dopo Tullio De Mauro, Renato Parascandolo, Mario Morcellini, Gianpiero Gamaleri e Vincenzo Vita il focus sulla riforma RAI de L’Eurispes.it continua con un’intervista a Roberto Zaccaria, ordinario di Diritto Costituzionale, parlamentare dal 2008 al 2013. È stato Presidente Rai dal ’98 al 2002, ed è spesso intervenuto sul tema della riforma del Servizio Pubblico.
Professore, la recente parziale modifica della governance della Rai che, certo, tutto è meno che una vera riforma, non la soddisfa…
“No, non mi soddisfa per due ragioni: una di metodo e una di sostanza. Dal punto di vista del metodo, quando si affronta un problema legislativo di questa portata è necessario partire da una seria riflessione di sistema. Bisogna riunire, come viene fatto in altri paesi, un gruppo di esperti e farli lavorare secondo un piano che già tenga conto di alcuni obiettivi prefissati, con l’obiettivo di redigere un rapporto organico. Questo rapporto in Italia non l’ha prodotto né la politica né il governo, bensì la Fondazione Astrid[1]che ha stilato un documento di una trentina di pagine in cui sono delineati possibili scenari d’intervento. Si deve partire da questo livello di analisi e di riflessione, per passare poi ad una proposta legislativa. Sarebbe questo il metodo giusto. Nel nostro Paese è invece avvenuto il contrario: si è improvvisata una soluzione normativa molto superficiale, è stata portata in Parlamento e si è pensato che la si potesse aver pronta in quattro mesi, cosa semplicemente ridicola; il nostro Parlamento ha bisogno di molto più tempo per approvare leggi importanti. In sintesi, sono stati fatti molti errori. Non ci si è preoccupati di avere una visione approfondita, si è improvvisato un testo-schermo del tutto insufficiente e sapendo in anticipo che non sarebbe stato approvato. Così è stato facile procedere alle nomine (che interessavano) dando poi la colpa al Parlamento incapace di approvare una legge in quattro mesi.…”
È un suo limite fisiologico …
“Non direi che è un limite. Per fare una legge importante ci vuole almeno un anno. Se qualcuno mi citasse una sola legge di una certa importanza che in meno di otto mesi sia passata per i due rami del Parlamento, gli offro senz’altro un caffè …”
Che dire allora dei decreti Berlusconi?
“Be’, quelli erano per l’appunto decreti. L’istituto è diverso, come lo era la situazione di allora. In quei giorni erano state oscurate dalla Magistratura alcune emittenti televisive della Fininvest, e il governo Craxi intervenne d’urgenza. In questo caso non c’era nessuna urgenza se non quella di fare una buona legge. Lo ripeto: si è improvvisato un testo senza né capo né coda, lo si è mandato in Parlamento e, dopo quattro mesi, si è constatato che il Parlamento non lo riusciva ad approvare e si è tornati alla legge Gasparri. In questo processo colgo difetti sia di metodo sia di sostanza.”
Oltretutto si è parlato solo di governance e non di mission…
“Sì, e, in effetti, il problema della governance è solo un aspetto. Se si vuole fare una buona legge sulla governance non si può eludere il tema della mission. È pregiudiziale definire la funzione del Servizio Pubblico. Si tratta dunque di una necessità implicita, e la si sarebbe potuta soddisfare in molti modi. Si sarebbe potuto elaborare una premessa, o rifarsi alla storica mission della Rai dei primi decenni (bastava riprendere l’art.1 della legge del 1975 o la nozione del protocollo di Amsterdam). Il Servizio Pubblico in Italia non è infatti privo di una mission, che però si esprime attraverso diversi strumenti normativi (legge, contratto di servizio, missione aziendale, ecc.). Si trattava quindi di identificare queste disposizioni e attualizzarle. Del resto, non sarebbe stato affatto complicato: non serviva una nuova carta da 50 articoli. Sarebbe bastato un articolo, due al massimo. In tal senso, la sua obiezione è corretta: la riforma della governance non ha tenuto conto di finalità complessive. È mancata, come ho detto, una premessa, una visione sulla situazione attuale – che poteva anche arrivare da un rapporto di poche pagine. Ma ciò non è avvenuto, e nei fatti è stato prodotto un testo improvvisato e del tutto privo di fondamenta: un testo che non ha tenuto in alcun conto tutto il dibattito fiorito negli anni nel nostro Paese.”
Vorrei parlare ora di informazione e, subito dopo, di formazione. In un giorno tipo di questa ripresa autunnale dei palinsesti televisivi, ho contato sui canali generalisti della Tv pubblica ben 35 edizioni di telegiornali tra brevi, medie e lunghe, per un ammontare complessivo di 10 ore di news. Se a questo dato aggiungiamo le produzioni talk di un giorno medio, dobbiamo conteggiare ulteriori quattro ore. In più, abbiamo l’allnews della Rai che oltre al proprio palinsesto di 24 ore d’informazione produce edizioni flash notturne per tutti i canali (generalisti e no), contribuendo per altre 4 ore, per un totale di 18 ore di informazione solo sulle tre reti maggiori. Nessuno mette in discussione il grande valore dell’informazione, tanto più nel Servizio Pubblico, ma questi numeri non fanno pensare, forse, ad un “accanimento informativo”?
“Questi numeri fotografano una realtà della nostra televisione pubblica. Che ci fosse una problema e la necessità di intervenire lo aveva, del resto, dimostrato il Direttore generale uscente Gubitosi. C’era e c’è bisogno di un progetto di riforma dell’assetto dell’informazione, e Gubitosi aveva avanzato un progetto che esprimeva un’idea di razionalizzazione. Va riconosciuto che in questo ambito le idee sono molto diverse, come diverse le risposte. In passato il sindacato dei giornalisti aveva persino proposto di accorpare le tre maggiori testate Rai in una sola realtà. Gubitosi aveva ritenuto giusto seguire un’altra strada, ma si trattava di un’iniziativa il cui limite era quello di esser partita troppo tardi. Un Direttore generale Rai resta in carica tre anni: attivandosi però solo nel suo ultimo anno è difficile che riesca a portare a compimento il suo progetto”.
Lei parla della cosiddetta “riforma del 15 dicembre”, che prevedeva l’accorpamento delle redazioni di Tg1 con Tg2 e Rai Parlamento e di Tg3 con Rainews24, TgR, Meteo e Ciss. Gubitosi nel corso di una recente intervista all’Espresso ha dichiarato di aver preso a modello la BBC, e di voler ridurre le edizioni lasciando però in vita le diverse testate …
“Infatti. Non si trattava di ridurre la quantità di informazione, bensì di riorganizzare l’offerta in modo da renderla meno ripetitiva. Prendiamo all’esempio le allnews. Si può fare riferimento a Sky o anche a Rainews24 (che come è noto è partita prima). Se proviamo a pesare la quantità dell’informazione trasmessa, non cambia molto se si producono 10 edizioni piuttosto che 5: vengono trasmesse le stesse notizie nella speranza di raggiungere pubblici diversi. Naturalmente, un modo per diversificare potrebbe essere offrire approfondimenti durante il giorno su diversi argomenti, rubriche d’economia, di ambiente, di politica estera o di altro. Questo succede solo in parte. Insomma tanta informazione, ma non tantissime notizie. Una riforma dell’informazione che al posto di tante ore offra delle diversità informative e accresca il numero di notizie e approfondimenti è, a mio giudizio, sacrosanta”.
Passando invece alla formazione, Tullio De Mauro nel suo intervento sul nostro focus ha osservato come la Rai faccia “troppa informazione e poca formazione”. Su questo fronte, guardando all’ultimo ventennio, il confronto tra la Rai e un altro storico servizio pubblico come la BBC è addirittura imbarazzante. Basti pensare alla pressoché totale assenza di rapporti tra Rai e mondo della scuola e alla sua latitanza sul fronte della Rete, che la vede come realtà editoriale assai meno sviluppata e visitata di molte altre realtà minori…
“Qui stiamo addentrandoci in una tematica assai vasta. Non c’è il minimo dubbio che la formazione rientri all’interno della missione del Servizio Pubblico, ma va riconosciuto che l’obiettivo della Rai, come dei servizi pubblici di tutta Europa, è quello di offrire una programmazione differenziata per i diversi pubblici. Io non posso né voglio accettare un giudizio che neghi in radice ogni progettazione della Rai in questo campo. Mi sembra azzardato dire che la Rai non abbia avuto rapporti con il mondo della cultura e più in particolare con la scuola. Essa ha sempre agito nell’ambito della formazione, benché sia un’istituzione diversa da quella scolastica. Ognuno ha il suo compito. Io ricordo però che fin dalle origini la Rai ha avuto il suo Dipartimento Scuola Educazione e in tutta la sua storia vi sono state strutture che hanno prodotto cose importanti su questo terreno. Rai Cultura è la struttura attuale dedicata a questi compiti come in precedenza ha operato Rai Educational. Ricordo una serie di programmi condotti da Renato Parscandolo attraverso esemplari interviste ai maestri della filosofia. Forse la Rai non avuto, come la BBC, il compito di “formare” come un suo obiettivo principale, ma non mi sognerei mai di sostenere che sia stata assente. … Che si possa e debba fare di più è un altro discorso, e sottoscrivo quello che Tullio De Mauro ha affermato.”
Queste mie considerazioni nascono di fronte all’imponente lavoro che la BBC sta svolgendo proprio in questi mesi. Con l’integrazione nella didattica liceale di una nuova materia nel curriculum nazionale, l’insegnamento della programmazione e dei linguaggi macchina, la BBC ha rimodellato la sua intera stagione 2015-16 sul tema del digitale per assistere al meglio questo cambiamento generazionale. È con rammarico che, guardando alla situazione italiana, non solo non trovo nella storia recente simili iniziative da parte della Rai, ma rimango scettico anche per il futuro.
“Guardi, la BBC è indubbiamente una grande televisione ma non credo assolutamente che debba diventare un modello assoluto. Se vogliamo condurre dei raffronti accurati con la RAI (nonostante la diversità enorme di mezzi), non credo che noi risultiamo sempre perdenti. Riconosco che vi sono campi (pensiamo alle news internazionali) dove noi abbiamo molto da apprendere, ma vi sono altri settori nei quali siamo noi ad insegnare loro. Anche dopo la stagione propriamente “pedagogica” della Rai, alla quale ho accennato il Dipartimento Scuola Educazione istituito subito dopo la riforma, la RAI ha curato e gestito i diversi livelli di produzioni educative. Non voglio ricordare solo i programmi di storia, ma vorrei prendere in considerazione quello straordinario filone di programmazione che risponde al nome di Quark. Questo è un programma culturale sul quale la Rai ha investito ed ha avuto la forza di mettere in prima serata. Ma il fatto che i programmi culturali non siano sempre in prima serata non deve indurre a giudizi sommari. È come quando si entra in una libreria. Se in vetrina sono esposti i libri più commerciali, è solo entrando dentro che si trovano tanti altri libri forse più appaganti. Ora, che questi programmi eccellenti non siano tutti in prima serata potrà sembrarle ma questo è un problema di politica commerciale su cui si può discutere. Ricordiamoci però ancora che un programma come Quark, mandato in prima serata, costa molto di più di altri ed ha ben altro significato. Emanuele Milano, storico direttore di Rai 1, soleva dire che i programmi culturali sono un appuntamento straordinario, ma che metterli in prima serata costava molto, assai più che comprare un film o una fiction, e che fare ascolti era ancor più impegnativo. È facile dire quindi che “non ci sono” o “non si vedono”, ma bisogna sempre adottare il punto di osservazione del produttore per capirne le ragioni. Mi sembra troppo facile radicalizzare questa presunta scarsità. Detto questo, e ancora una volta, se lei mi chiede se si può fare di più, la risposta è “sì”, ma, come prima le ripeto anche qui che non posso essere d’accordo se si afferma con semplicità che non facciamo nulla”.
Cambiando argomento, recentemente sono stati ospiti a Porta a Porta i familiari del boss mafioso Casamonica, venuto alla ribalta per i suoi funerali in pompa magna nel cuore di una Capitale colpevolmente ignara. La puntata è stata un successo in termini di share, ma si è tirata dietro le critiche di una buona fetta del mondo dell’informazione e non solo. Non si tratta certo della volontà di censurare un qualsiasi tema nella proposta dell’informazione, ma vale la pena di segnalare come, nel sistema italiano, solo i temi più “grossier”, quelli che tirano, sono oggetto d’attenzione mentre molte altre questioni civiche e sociali latitano o mancano di un’attenzione costante. Lei, che da decenni insegna diritto della comunicazione e dell’informazione, come giudica l’evento in sé e le molte e diverse critiche che ne sono susseguite?
“Be’, io insegno diritto dell’informazione ma non sono un giornalista. Sono d’accordo con il fatto che ci siano essenziali ragioni d’opportunità che si devono fare prima di affrontare determinate questioni, come quella dei funerali-spettacolo. Penso che anche sul piano informativo ci siano anche gli strumenti di volta in volta più corretti e adeguati. Io non mi permetto di predeterminare ciò che la televisione pubblica possa o non possa affrontare, ma ritengo debba scegliere lo strumento informativo più adatto. In tal senso mi pare giusto considerare quanto sia più adatta una trasmissione d’inchiesta per affrontare quei temi che invece sono stati posti al centro di un salotto radiotelevisivo. È prerogativa di chi conduce un’inchiesta andare sul posto, vedere i contesti e interpellare tutte le parti coinvolte senza discriminazioni o censure. Abbiamo molti esempi di grandi giornalisti che hanno condotto in passato eccellenti inchieste, tra cui Santoro, Iacona e Formigli. Tutto è diverso in un appuntamento come il talk, o comunque in quel genere d’informazione che viene trattata attraverso “trasmissioni di informazione-intrattenimento”. In questi casi l’opportunità conta. Il talk troppo spesso si riduce alla scelta di chi far sedere sulle poltrone. C’è un problema di opportunità nell’affrontare certi temi in chiave “spettacolare”. D’altra parte Vespa ha nella sua esperienza più volte diretto programmi di questa natura, spesso provocatori, e si potrebbero citare molti casi. In riferimento all’intervista ai familiari di Casamonica, questo era un caso di non opportunità, proprio perché inserito all’interno di un talk. In conclusione non voglio con ciò dire che non si dovesse parlare di quei temi, ma che lo strumento informativo doveva essere diverso.
Stiamo parlando di Servizio Pubblico, delle sue difficoltà e delle sue occasioni perse. Al momento però non abbiamo nominato il convitato di pietra del sistema, ovvero la televisione commerciale. Senza ripercorrere la storia del duopolio, che anche oggi sembra volersi riproporre magari con la messa della Rai in un angolo ed una dinamica di accordi tra Mediaset e l’altro grande operatore che è Sky, un dato emerge chiarissimo sia per quello che riguarda la pubblicità che la pay: questi due elementi sembrano poco acconci ad una corretta morfologia di Servizio Pubblico. Non è questo forse il nodo che bisogna affrontare, anche per togliere gli alibi ai duopoli passati, presenti e futuri?
“La sua è un’altra domanda molto complessa e per rispondere occorrono alcune precisazioni. Innanzitutto, occorre considerare come lo scenario in cui si trova l’Italia nell’ambito dei rapporti tra emittente pubblica e private è affine a quello di altre realtà europee dove i modelli non sono cristallizzati. La BBC, che da 90 anni finanzia con il canone le sue trasmissioni nazionali, per buona parte di quest’anno sembrava destinata, su pressioni del partito di Cameron, verso un sistema misto canone pubblicità, ma così alla fine non è stato. Passando poi al problema delle risorse, è chiaro che il privato vive della pubblicità o degli abbonamenti pay. Il servizio pubblico può vivere di entrambi questi sistemi. La Rai si è negli anni orientata molto verso i ricavi pubblicitari, ma per una ragione semplicissima: il canone della Rai è tra i più bassi in Europa. E mi sembra chiaro che, se dal canone non arrivino abbastanza risorse il resto bisogna prenderlo dalla pubblicità. Ricordo che quando ero Presidente della Rai la forbice tra canone e pubblicità era molto stretta (55% il primo, 45% l’altra). La situazione vedeva però una Rai molto più forte di adesso. A mio avviso, non è possibile pensare ad un Servizio Pubblico senza pubblicità con questi livelli di canone. La televisione povera non esiste. La televisione è un prodotto che costa e costa molto. Detto ciò, potremmo parlare di come i servizi pubblici si rapportano con la televisione commerciale, o a pagamento o con quelle miste. Questa è un’ulteriore domanda impegnativa, ma la scelta sul finanziamento non può essere attuata da un operatore senza guardare al sistema. In Germania il finanziamento che il canone assicura alla televisione pubblica tedesca (nelle sue varie sigle) è di più di sei miliardi, mentre l’Italia riceve attorno al miliardo e otto. Il paragone non può darsi. In Germania c’è un canone non solo alto, ma che tutti pagano, con regolamenti e misure ben concepite che consentono di ancorarlo a dei dati reali che sono le abitazioni. È chiaro che lì il servizio pubblico può procedere su di una strada che non richiede la pubblicità. Diverso discorso vale per il nostro Paese, dove è evidente che ci vuole la pubblicità semplicemente per mantenere in piedi l’apparato. Lei prima invitava a fare più formazione, ma la Rai deve anche andare incontro ai desideri del pubblico con nuovi sceneggiati, film, nuovi modi di seguire gli avvenimenti sportivi. La televisione pubblica, per sua stessa costituzione, deve essere generalista perché si rivolge a tutti. E se la consumano tutti, i “tutti” hanno tanti desideri diversi, e bisogna a prescindere rispettare tutti i gusti e gli interessi, dalle signore che vogliono seguire una fiction commerciale a chi vuole invece vedere dei giochi di semplice intrattenimento o dei varietà o della musica. Il pubblico è, per sua natura, capriccioso, e rifiuta una programmazione che si presenta “educativa” in modo dichiarato. Solo l’offerta generalista può accontentare tutti, e per avanzarla efficacemente occorrono enormi risorse che, se il canone latita, vanno attinte dal sistema misto. Ed è a questo punto che si entra nella competizione tra servizio pubblico e concorrenza privata sul campo del libero mercato. Nel complesso, guardando all’Europa, si può dire che i servizi pubblici tengano – chi più e chi meno. Qualunque comparazione qui muove su terreni accidentati, ma che la Rai riceva contributi notevolmente inferiori rispetto alla BBC e al sistema tedesco è un dato assodato. La pubblicità è e resterà essenziale per il Servizio Pubblico generalista finché il canone non potrà adeguatamente finanziarlo”.
Un’ultima domanda. A meno di 8 mesi dal rinnovo della concessione Stato-Rai, lei ritiene ci siano possibilità perché questo tempo che rimane sia utilizzato proficuamente, o ha dato la battaglia per persa?
“Facciamo una premessa. Il governo ha scelto di non fare la riforma della televisione, ma ha scelto di nominare con le vecchie regole i nuovi vertici della Rai. Oggi abbiamo un nuovo Direttore generale, un Presidente e un rinnovato Cda. Mi pare un dato di realismo che queste persone appena nominate, godendo del “gradimento” del governo – per usare un eufemismo – saranno le prime a battersi per un rinnovo della concessione Rai. Dubito che Antonio Campo Dall’Orto andrà dal presidente del Consiglio senza idee o stimoli. Visto l’esiguo tempo rimanente, sono fiducioso che ci saranno delle risposte “all’italiana”, magari un decreto legge o semplicemente con un rinvio della scadenza di qualche anno. Secondo me rimane non risolto un problema: a quali condizioni e con quali contenuti attuare queste misure. E qui mi rivolgo al lavoro svolto da Articolo21 o all’iniziativa avviata da Parascandolo che ha portato con un percorso triennale realizzato con le scuole all’elaborazione a cura degli studenti di una rinnovata mission per la Rai. È necessario che questa nuova missione, che è implicita nel rinnovo della concessione, sia frutto di una decisione che non maturi in qualche chiusa stanza governativa, ma sia il più corale e collettiva possibile, così come per sua natura il Servizio Pubblico è collettivo e sociale. La mia risposta è quindi la seguente: ci sarà sicuramente un rinnovo o una proroga. Non so però se sarà frutto di un lavoro pubblico e aperto o se sarà deciso da poche persone. Se fossimo di fronte a questa seconda ipotesi, sarebbe assai negativa. E mi dispiacerebbe molto!!!”