Deejay Television e la vecchia MTV, compagni irrinunciabili della generazione Ottanta-Novanta, non esistono più, ma ne conserviamo il ricordo. In compenso, oggi c’è YouTube ed i video non sono mai stati così numerosi e così a portata di mano. Ne parliamo con Luca Pacilio, autore del libro Il videoclip nell’era di YouTube.
Qual è l’origine del videoclip? A suo avviso, che ruolo aveva quando è nato?
Quale sia la precisa origine del videoclip è difficile a dirsi perché esempi di lavori brevi che associavano musica alle immagini si rinvengono fin dalle origini del cinema. Ma una tappa importante del cammino che ha portato al videoclip musicale per come è concepito oggi è sicuramente costituita dai filmati in pellicola che venivano rimandati dall’italiano cinebox, prima, e dal francese scopitone, poi: si trattava di apparecchi che prevedevano uno schermo assemblato al jukebox e che, quindi, al brano selezionato associavano le immagini del cantante che lo interpretava. Lo scopitone in particolare si diffuse molto velocemente. Altrettanto velocemente cadde in disuso, ma lasciando dietro di sé una traccia importante. La vulgata vuole che il primo videoclip sia stato quello di Bohemian Rhapsody dei Queen, nel 1977. La storia è nota: stante la complessità del brano, anziché la solita esecuzione in studio nella trasmissione Top of the Pops, si pensò di far registrare al quartetto un filmato che – oggi possiamo dirlo – presentava tutte le caratteristiche di un music video contemporaneo. Lo si considera il primo per pura convenzione, ovviamente, ma è una convenzione accettabile, visto che è proprio in quegli anni che il fenomeno muove i primi passi, per poi affermarsi prepotentemente negli Ottanta. L’obiettivo del videoclip, in origine, era soprattutto quello di rendere riconoscibili gli artisti. Costituiva senz’altro un investimento sulla loro immagine, prima ancora che un mezzo promozionale per il brano musicale.
Negli anni Ottanta, quando i videoclip si sono realmente affermati, le star della musica erano le vere protagoniste dei video. Quali artisti devono una parte importante del loro successo al sapiente utilizzo dei videoclip per diffondere le proprie canzoni?
Il discorso è che dagli anni Ottanta non potevi dirti una star se non facevi video. E non c’era video che non avesse l’artista come suo punto focale. Il videoclip si affermò subito come un elemento imprescindibile dalla proposta musicale. Quando i Buggles sancivano la nuova tendenza cantando Video killed the radio star era il 1979: già da allora era chiaro che per avere successo non ci si poteva più affidare alla sola traccia musicale, che la star della radio – senza immagini da associare alla canzone – era morta. Quindi tutti gli artisti più importanti del periodo, da David Bowie a Michael Jackson, misero in campo la loro video-strategia. Era inevitabile e vitale. I Duran Duran hanno costruito il loro successo con i video, tanto che all’epoca molta critica sminuiva il loro discorso musicale, ritenendolo puramente accessorio rispetto a quello dell’immagine. E come David Bowie, Madonna ha tracciato il suo percorso di star trasformista attraverso il videoclip.
Un tempo dilagavano i canali tematici dedicati esclusivamente ai videoclip. Anche in Italia alcune trasmissioni ad essi dedicate rappresentavano un must per i ragazzi. Poi il declino. Che cosa è accaduto?
Il declino dei canali tematici si lega alla contemporanea diffusione della Rete e al progressivo abbandono del discorso videomusicale come proposta esclusiva da parte di network sempre più protesi a inseguire il pubblico dei giovanissimi. E quindi sempre più interessati a programmi accattivanti o a reality show che smentivano le radici di questi canali, relegando la videomusica a determinate fasce orarie.
C’è quel bellissimo verso di Kanye West in So Appalled che, giocando con il duplice senso della parola “play” recita: «The day that you play me/ Would be the same day MTV play videos», «il giorno che riuscirai a fregarmi sarà lo stesso in cui MTV trasmetterà video». Ovvero mai. Questa era diventata la situazione nel nuovo millennio.
In che modo il web ha influito sulla trasformazione e sul ruolo del videoclip nella musica contemporanea?
La Rete ha innanzitutto modificato il rapporto con l’utenza, dal momento che, per vedere il nostro video preferito, oggi possiamo semplicemente scegliere di farlo. Non siamo più soggetti alla dittatura del flusso televisivo. Che però operava anche una selezione ragionata dei contenuti. Questa funzione di filtro adesso viene a mancare, delegandosi al fruitore una scelta che avviene nel mare magnum delle immagini disponibili. Il che significa che videoclip bellissimi possono sfuggire anche a un’utenza potenzialmente interessata. Ma la Rete ha anche rilanciato il videoclip, lo ha democratizzato, per così dire, ridando linfa a un linguaggio che, con la decadenza dei canali tematici, sembrava destinato a diventare marginale. Oggi possiamo invece dire che, grazie al web, il video non è mai stato così vivo.
Come sono cambiati concettualmente ed esteticamente i videoclip da quando si è affermato YouTube?
L’avvento di YouTube ha imposto una logica completamente nuova, quella della viralità. Oggi, tanto più un video è cliccato tanto più determina un profitto per l’artista. Il clip punta dunque a questo e deve rendersi appetibile: questo fenomeno ha fatto sì che le idee e le provocazioni divenissero la materia prima e il motore propulsivo della videomusica contemporanea. Quella di YouTube è un’epoca che ha imposto, per questi motivi, una nuova estetica, oltre a modificare, come dicevo, le modalità di fruizione del videoclip, visto che il potenziale spettatore, potendo scegliere, che cosa vedere e quando, assume un ruolo attivo impensabile al tempo di MTV.
Non di rado grandi registi si sono cimentati con i videoclip. Molti hanno iniziato con i videoclip per poi affermarsi al cinema. Quali sono, a suo avviso, gli esempi più interessanti dal punto di vista artistico?
Diciamo che se gli esempi di videomaker divenuti grandi registi cinematografici sono molteplici, all’inverso la cosa non funziona nello stesso modo. Oggi registi che provengono dalla videomusica come David Fincher, Spike Jonze, Michel Gondry, Jonathan Glazer – solo per citare i primi che mi vengono in mente – sono tra le realtà più fulgide del cinema contemporaneo. Quando è accaduto che grandi nomi del cinema si cimentassero nel videoclip, raramente gli esiti sono stati memorabili, il che dovrebbe suscitare una riflessione. Che qui evito di esprimere, parendomi implicita.
Il coinvolgimento di questi grandi nomi ha aiutato a riconoscere dignità artistica a questa forma espressiva? O, secondo lei, generalmente si tende a guardare ai videoclip come mero strumento commerciale, al massimo come forma di intrattenimento popolare per i più giovani?
Sicuramente l’imporsi nel mondo del cinema di videomaker come quelli che ho appena citato ha determinato un cambiamento. Di alcuni di essi – penso per esempio a David Fincher – si è addirittura smesso di pensare come a dei cineasti che provengono da quel mondo, il che però conferma come, in molti casi, le origini videomusicali vengano viste come una macchia da cancellare. Dagli anni Novanta fino a oggi, comunque, l’atteggiamento pregiudiziale che caratterizzava quella critica che usava l’aggettivo videoclipparo con accezione tutta negativa, si è decisamente attenuato. Ma per moltissimo tempo il videoclip, quale forma espressiva eminentemente pop, veniva considerato troppo compromesso col sistema industriale per potergli riconoscere dignità artistica. Comunque, ancora oggi il debutto di un videomaker nel mondo del cinema viene vissuto con sospetto: il critico quasi sempre evita di sbilanciarsi, attende che il lavoro del regista si consolidi, vuole operare su un terreno sicuro. Tutto questo, com’è evidente, non dice nulla del cinema o del videoclip, né tantomeno delle relazioni tra l’una e l’altra dimensione, ma solo del modus operandi di una critica che invece di registrare quanto accade pensa a preservare la sua autorevolezza.
Qual è il ruolo del videoclip in Italia? Più marginale nella fruizione musicale rispetto a quanto avviene all’estero?
Il discorso sul videoclip italiano è davvero lungo e complesso. Quella del video nostrano costituisce una realtà troppo variegata per poterla sintetizzare in una risposta. Mi limiterò a dire che, in generale, siamo ancora molto indietro, anche se si trovano autori e progetti interessanti. Questo accade soprattutto nell’indie, dove c’è maggiore libertà.
Secondo lei, esiste uno “stile italiano”? O anche solo alcune tendenze peculiari?
Non esiste propriamente uno stile italiano, anche se alcuni filoni possiamo isolarli. Esistono sicuramente videomaker che hanno personalità e vogliono costruire un loro mondo espressivo, in modo originale e senza scimmiottare i video internazionali. E che però – e qui sta il problema – hanno molta difficoltà a imporre la loro cifra e la loro visione.
Vorrei chiudere con un suggerimento per chi non ha mai prestato molta attenzione ai video musicali. Quali videoclip consiglierebbe di guardare per primi?
Posso dire della mia esperienza. Il giorno che ho visto in anteprima Sledgehammer, il video di Peter Gabriel diretto da Stephen R. Johnson, mi sono innamorato della videomusica. Mentre lo guardavo mi dicevo che al cinema non avevo visto mai niente di così coinvolgente. Allora non c’era Internet e ho penato moltissimo prima di sapere chi fosse il regista. Da quel momento ho cominciato a guardare i video pensandoli prima dal punto di vista di chi li realizzava, piuttosto che dell’artista musicale. Poi venne Michel Gondry. E qui mi fermo.
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