Alcol, droga, fumo, gioco. Sacchetti: “Il rischio dipendenza fa parte dell’uomo”

Negli ultimi anni l’Eurispes ha intensificato la propria attenzione all’area delle dipendenze, sviluppando numerose ricerche sull’alcol, sul tabagismo e sul gioco. Vecchie e nuove dipendenze, che segnalano comunque un malessere diffuso difficile da arginare, e sul quale le politiche pubbliche spesso arrancano. Di questo abbiamo parlato con Emilio Sacchetti, Professore Emerito dell’Università di Brescia, già Presidente della Società Italiana di Psichiatria ed oggi Presidente Eletto della Accademia Italiana di Scienze delle Dipendenze Comportamentali.

Droghe, vecchie e nuove, alcol, fumo, gioco, ma anche Internet e sesso, e poi i disturbi alimentari: Professor Sacchetti, a crescere sono i numeri e le tipologie delle dipendenze, o la diffusione della consapevolezza che ci si trovi di fronte a vere e proprie patologie?
Mi pone una questione complessa, in quanto la consapevolezza c’è e non c’è, nel senso che è forte nel mondo degli operatori sanitari, mentre le persone che hanno delle dipendenze di tipo comportamentale non pensano affatto di essere ammalati. Chi manifesta una patologia, ad esempio, il DGA, ma anche altre dipendenze e, da ultimo, quelle legate a Internet, assai raramente è consapevole del proprio stato.

Professore, queste dipendenze affondano, almeno in parte nella debolezza, nelle fragilità dell’individuo. Ciò può essere relazionato all’affievolirsi dei legami sociali e familiari? Questo individuo, al centro di un ecosistema che apparentemente lo rende “sovrano assoluto”, non risulta, in realtà, più “nudo” e, quindi, più indifeso?
Tutte le forme di dipendenza hanno un’origine multifattoriale, cioè non hanno un unico fattore; certamente pesa la dinamica dei rapporti sociali, ma esistono poi una componente genetica, una componente ambientale, una componente relazionale. Definire quanto specificamente pesi ciascuna componente è esercizio assai complesso, anche perché esse si manifestano diversamente nel tempo. Faccio un esempio: il gioco d’azzardo è sempre esistito, ma ai giorni nostri è molto più frequente perché oggi si gioca in molte più forme. Una volta, nell’antichità, a giocare erano i soldati e i nobili, oggi è cambiata l’utenza, tutti possono giocare con le diverse tipologie anche 24 ore al giorno, e molto più spesso; per questo è illusorio pensare di risolvere gli eccessi limitando le ore dell’offerta di alcuni giochi. Questa idea di “comprimere” è generata da comprensibili e rispettabili atteggiamenti culturali, ma non ha reale efficacia.

In questo senso, Professore, potremmo dire che le dipendenze da alcol non sono collegabili al numero di bottiglie che si hanno a portata di mano e, tornando al DGA, le dipendenze da gioco solo in parte nascono, dunque, dal fatto che prima esistevano solo la schedina e il lotto, mentre oggi le tipologie sono tante e si può giocare con le slot o via Internet….
Certo, lo steso vale per l’alcol che si può assumere con il vino e con tanti altri prodotti di libera vendita. Oppure, ci si può rivolgere alla cannabis o al peyote, o ad altro ancora. La tendenza alle dipendenze fa parte dell’essere umano. Non a caso esistono dipendenze da alcol e droghe, ma anche dipendenze comportamentali sine substantia. Esiste chi abbina all’alcol il gioco, chi invece presenta una comorbilità che si manifesta in dipendenze comportamentali. Esiste, insomma, una selettività nella propensione alle dipendenze che va studiata in modo approfondito per ciascun individuo, e su questo debbo riconoscere che, anche se cominciamo a capire qualcosa, complessivamente a livello di analisi siamo molto indietro.

Se ho capito bene, Professore, ci sta dicendo che non esistono capitolati, protocolli aggiornati attinenti queste patologie che assumono anche rilievi sociali e socio-sanitari….
I protocolli esistono, ma sono di tipo comportamentale. Ci dicono quale è l’area della diffusione di determinate dipendenze, quanti soggetti accettano di curarsi, quale è mediamente il decorso. Queste evidenze cominciamo a conoscerle. In proposito, per quel che riguarda il DGA si ipotizza una rilevanza sotto il 2% della popolazione. Per uno studio serio, scientifico, sulle dipendenze da gioco servirebbe studiare un bacino di almeno 100.000 casi. Sarebbero necessarie politiche sanitarie pubbliche che ad oggi non ci sono.

Nella sua esperienza e valutazione, quali dipendenze, con o sine substantia, sono più perniciose per l’individuo e per la comunità?
Non esistono adeguati studi comparativi. Se pensiamo all’incidenza della mortalità, è chiaro che le sostanze classiche, alcol e droga, sono le più devastanti. Se utilizziamo altri parametri di impianto sociale e culturale, anche il DGA manifesta una forte pericolosità. Ma, ripeto, studi comparativi sui rischi di evoluzione delle diverse dipendenze, sostanzialmente non esistono. Inoltre chi, ad esempio, è colpito da DGA, presenta tre o quattro volte in più della generale popolazione il rischio di diventare dipendente da sostanze, e viceversa. La comorbilità è un elemento assai rilevante, ma non esistono evidenze che ci dicono come le dipendenze si collegano tra di loro, e con quale incidenza e per la generalità dei soggetti interessati. Molto dipende dal contesto esterno. Per assurdo, per chi vivesse in un paese che non ha la luce elettrica, non si potrebbe certo parlare di dipendenze da Internet.

L’Eurispes, anche negli ultimi anni, ha studiato diverse aree della dipendenza, in particolar modo l’alcolismo, il tabagismo e l’azzardopatia. Nel panorama della comunicazione, nel dibattito pubblico e anche politico, come affermato recentemente dall’Istituto Superiore di Sanità, si parla però soprattutto, se non esclusivamente, del gioco patologico. Come mai?
Perché è di moda, perché ha più presa e perché apparentemente è più facile da gestire; perché in qualche misura è stigmatizzato ma a livello diverso, ad esempio, del consumo di droga o di alcol. Del gioco d’azzardo, poi, con più facilità si può parlare come se fosse un “vizio”, e non una malattia…

In qualche misura la censura “etica” prende il sopravvento sull’aspetto terapeutico…
È così, fino a giungere, in un certo senso, ad una sorta di negazionismo medico.

La sanità pubblica è efficace nel contrastare le diverse dipendenze? I SERT, poi divenuti SerD, sono efficaci nell’intercettare e assistere queste particolari categorie di pazienti?
A mio giudizio assolutamente no. In particolare sul DGA, ma sostanzialmente ho forti dubbi che siano efficaci anche per l’alcolismo e per le droghe. Questo perché hanno dei modelli d’intervento che sono molto unidirezionali, molto sociologici, e che rispondono a ciò che pensa il dirigente locale. Non si applicano modelli comprensivi e multifattoriali, come in realtà dovrebbe essere. Inoltre, mi sento di dire ‒ anche se può risultare antipatico ‒ che non sempre la qualità di chi va ad operare in questi servizi è adeguata, mentre i SerD, per le complessità che affrontano, necessiterebbero del meglio di ciò che può offrire la sanità pubblica. Nei SerD si opera infatti su pazienti molto diversi tra loro, la qual cosa richiederebbe operatori dotati di particolari skills. Infine anche l’aspetto spaziale, ovvero la coesistenza in uno stesso luogo di soggetti molto diversi, non aiuta. Alcune aree sono, poi, poco presidiate. L’impatto dei videogame, ad esempio, non rientra nell’attenzione di queste strutture, e lo stesso avviene per le dipendenze nell’area del sesso. La sanità pubblica, a mio giudizio, è poco attenta, e spesso segue trend più legati a posizioni politiche e ideologiche piuttosto che scientifiche.
 
Oltre alla cura, efficace o meno che sia, anzi prima della cura, esiste la prevenzione. Si fa abbastanza contro l’alcolismo, il tabagismo e il disturbo da gioco d’azzardo? “Informare e capire per prevenire e curare“, è lo slogan che ha attraversato nel maggio scorso un importante convegno di psichiatria che si è svolto a Milano. La politica e la sanità pubblica questa “ginnastica” che porta a capire i fenomeni, la praticano con successo?
Sull’alcol e sulle sostanze si è fatto di più, sull’azzardo e sulle dipendenze comportamentali si è fatto poco e male. Ciò avviene perché spesso gli input e i riferimenti non sono tanto medici, ma di natura genericamente culturale e politica; ad esempio, l’idea di spostare una sala giochi in aree più periferiche, non porta a nulla; forse serve a non far giocare me, che gioco una volta all’anno, ma non serve affatto al giocatore patologico che sarebbe disposto a fare anche 200 chilometri, pur di riuscire a giocare. Ciò è frutto di una lettura distorta, secondo cui il gioco d’azzardo rappresenterebbe di per sé un male, in barba ai reali problemi cui va incontro il giocatore patologico. In questa maniera si ottiene solo di impedire l’accesso al gioco del cittadino che, a mio giudizio, ha diritto di giocare, magari una volta l’anno. Il proibizionismo in senso lato, le distanze e gli orari fortemente ridotti, infatti, colpiscono tutti. In più ciò avviene in una fase nella quale sempre di più avanzano i volumi del gioco online, e da quello fisico si passa a quello attraverso Internet…

Oppure da quello legale a quello illegale…
Certo, e ciò identifica uno spaccato particolarmente oscuro che spinge il giocatore problematico proprio verso l’illegale. Prendendo in esame l’area dell’azzardopatia, i numeri assai bassi dei presi in carico dai SerD (13mila), sembra contrastino con l’allarme sociale che accompagna in molti settori l’area del gioco. In più, questi provvedimenti, che possiamo definire “usa e getta”, segnalano la povertà culturale di chi li propone. Oltretutto, c’è un aspetto economico che si dimentica o, meglio, si vuole dimenticare: il gioco legale è tassato, anche se questo, certo, non è un valore “in assoluto”; quello su Internet è tassato per percentuali poco significative, quello illegale non è tassato per nulla. Siamo per l’oggi e per il futuro, di fronte a problematiche molto complicate che, in quanto tali, non possono essere affrontate con strumenti senza senso e controproducenti.

E allora, che cosa si dovrebbe realisticamente fare?
Il modo migliore per prevenire le dipendenze, in questo caso quelle da gioco, è informare, informare ed educare. In primo luogo – sembrerebbe banale – bisogna ripetere ai quattro venti che il gioco d’azzardo, e soprattutto quello legato puramente alla “sorte”, per sua natura è legato alla casualità, e quindi scervellarsi ipotizzando sistemi “sicuri” per vincere, rappresenta una regressione dalla logica e una negazione del buon senso. In questo àmbito sollecitare lo spirito critico sarebbe essenziale. Il paradosso è che lo Stato che “si preoccupa” di prevenire le dipendenze da gioco,  è lo stesso Stato che consente un’informazione veramente delittuosa che induce ad affidare una parte del proprio destino economico proprio alla sorte.  Siamo di fronte ad una bivalenza strutturale che non può produrre nulla di buono.

Lo Stato, dunque, per così dire ci assiste in un viaggio nel tempo, trasportandoci in epoche in cui la Sorte, la Fortuna e il Fato erano divinità da cui dipendeva la sopravvivenza dei singoli e dei gruppi umani. In barba al pensiero critico e razionale che dovrebbe informare i nostri tempi…
È paradossale, ma è proprio così. Anche i media hanno, poi, le loro responsabilità. Spesso anche il giornalista ben preparato, di fronte alla vincita milionaria privilegia il clamore della notizia, e contribuisce a generare, per così dire, una dipendenza “da illusione”.

Concludendo, Professore, la nostra conversazione, che ne pensa delle politiche pubbliche che hanno portato ad una stretta sulla pubblicità del gioco…
È l’unico elemento delle politiche pubbliche che mi sento di condividere.

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