Chiara Ferragni: un nome o, forse meglio, un brand, che al solo essere pronunciato stimola molte reazioni, ma (quasi) mai indifferenza. Questo è di per sé già un fatto degno di nota: quanti altri personaggi pubblici hanno una tale potenza sull’attenzione di tutti, riuscendo a polarizzare le opinioni e le posizioni collettive? Forse qualche sportivo: a Roma, oggi, Josè Mourihno; guardando alla politica nessuno (se non, forse, nel passato, Matteo Renzi); un deserto nella società civile, “peggio che andar di notte” nella cultura. Nessuno, o pochissimi, insomma possono “vantare” una tale caratteristica e la Ferragni sarebbe, già per questo, un caso degno di osservazione per chi osserva e studia il cambiamento sociale. Il “pasticciaccio brutto” del pandoro Balocco, di cui è protagonista la Chiara nazionale, è un’occasione perciò per riflettere su una questione latente nel dibattito pubblico. Sarà, questa vicenda, l’inizio della fine per il mestiere dell’influencer?
Che cosa fa di un essere umano un influencer?
Vediamo di delineare, innanzitutto, la silhouette di questa figura professionale ‒ sì, è un mestiere – che ha connotati precisi. Un influencer è una persona attiva sui social media ‒ i preferiti, nell’ordine, sono Instagram, TikTok e YouTube ‒ che ha un minimo di 1.000 persone che lo seguono (follower o iscritti) e che, in virtù dell’autorevolezza e reputazione a lei/lui (in Italia il 65% degli influencer sono donne) riconosciute, sono in grado di esercitare una qualche influenza sulle opinioni, atteggiamenti e comportamenti. Dunque, l’influencer è una persona nota ‒ al massimo grado diviene una celebrity ‒ le cui affermazioni, scelte e comportamenti sono considerati rilevanti all’interno di una determinata comunità aperta e raggiungibile direttamente sulla piattaforma (i follower). A questa persona si riconosce autorevolezza in un certo campo e, grazie a questa, esercita un certo potere d’impatto sui comportamenti. Differisce dal testimonial (ad esempio, Gerri Scotti) perché, sebbene entrambi siano personaggi noti e pagati per prestare la loro notorietà a un brand, quest’ultimo non è necessariamente autorevole (che ne capisce, Scotti, di divani?) e non ha una community numerabile, direttamente raggiungibile e ingaggiabile.
Il volume di affari movimentato dagli influencer in Italia oscilli fra i 330 e i 400 milioni di euro l’anno
Le/gli influencer attivi in Italia sono circa 2,1 milioni ‒ avete letto bene, più degli iscritti all’Università ‒ e sono soprattutto fra Milano (si valuta che il 3% dei residenti a Milano siano influencer), Roma e Napoli. Si stima (Upa, Nielsen, DeRev) che il volume di affari movimentato dagli influencer in Italia oscilli fra i 330 e i 400 milioni di euro l’anno, con aspettative ulteriori di crescita intorno al 10% (il totale degli investimenti pubblicitari italiani vale circa 8 miliardi di euro). Questi denari provengono dagli investimenti che le aziende vi indirizzano, valorizzando, in ciascun influencer, il suo patrimonio di follower e il loro profilo; vi sono anche altri criteri ma sono secondari. Il costo di un singolo post di un influencer, a seconda dei casi, può andare dalle poche centinaia di euro alle decine di migliaia. Il bello è che, in alcuni comparti, soprattutto: moda e bellezza, intrattenimento e giochi, fitness, sembrano essere soldi ben spesi.
Quali sono i fattori che abilitano l’influencer?
In matematica, come noto, esiste l’idea di condizione necessaria e sufficiente. È un costrutto utile al nostro caso, per capire se quello dell’influencer sia un fenomeno contingente, o meno. Quali ne sono le condizioni (necessaria e sufficiente)? Partiamo dalla condizione necessaria: è l’abilitante tecnologico e sociale. Un influencer, infatti, è una figura che non esisterebbe se non esistessero:
- un tipo particolare di software informatico, cioè una piattaforma aperta e circoscritta ai suoi membri, ovvero i Social network;
- una rete di connessione radiomobile ubiquitaria, che genera quel campo, oggi praticamente accessibile a tutti a prezzi irrisori;
- una potente rete hardware fisica, accessibile in modo invisibile, semplice e inconsapevole dagli utenti della Rete attraverso l’attivazione dell’app social;
- dei terminali in grado di connettersi con estrema semplicità a questa Rete, panorama nel quale gli smartphone la fanno da padrone;
- molte, moltissime persone che nutrono interesse e trovano soddisfazione nei Social network, pronte a prestare attenzione e fiducia a loro pari, concittadini del social.
Tutte queste cose esistono ed è altamente verosimile esisteranno anche in futuro. Il sistema socio-tecnologico abilitante l’esistenza di un influencer va perciò considerato non passeggero, per cui abiterà anche il nostro domani. La condizione necessaria, insomma, è soddisfatta.
A cosa serve un Influencer?
Acquisito quanto sopra, la questione si fa più intricata. La condizione sufficiente affinché l’influencer permanga, dipende dalla sua utilità pratica e se, pertanto, la sua ragion d’essere sia contingente o passeggera. Iniziamo coi brand intesi genericamente, che siano commerciali, politici, sportivi eccetera. I brand usano gli influencer secondo le medesime logiche d’investimento che usano per gli altri media ma con un’attenzione speciale agli obiettivi specifici che l’utilizzo di questo medium consente di raggiungere:
- diventare un brand rilevante per una specifica classe di persone (ad esempio, i giovanissimi che non guardano la televisione);
- aumentare la notorietà e l’interesse verso un brand secondario (adesempio, il pandoro Balocco);
- aumentare la percezione positiva di un brand, far passare dei concetti, informazioni e idee, migliorando così il sentiment nei suoi confronti e stimolando le persone a interagire.
Vendere di più, ovviamente, è il meta-obiettivo che accomuna l’uso degli influencer agli altri media, ma di rado esso è raggiunto in modo diretto ‒ l’influencer di rado invita direttamente all’acquisto ‒, quanto piuttosto per vie derivate.
Il sistema socio-tecnologico che ne abilita l’esistenza non è passeggero, ma abiterà anche il nostro domani
Ma l’influencer serve anche alle persone comuni, non solo ai brand. A cosa? Sostanzialmente, vista dalla prospettiva dei follower, l’influencer ha quattro grandi utilità (semplifichiamo un po’):
- consapevolezza e raccomandazione: gli influencer possono essere intermediari di conoscenza, che restituiscono in maniera semplificata e sintetica un sapere ed esperienza verticale (ad esempio, Aranzulla nel campo informatico);
- ispirazione: un influencer può essere visto come un esempio di successo non irraggiungibile, come una persona che ha trasformato una passione in un mestiere ben retribuito (ad esempio, l’Estetista Cinica);
- intrattenimento: un influencer può essere un creatore di contenuti leggeri (ad esempio, le Eterobasiche);
- apprendimento: un influencer può essere un divulgatore, un soggetto attraverso il quale apprendere più semplicemente concetti complessi (ad esempio, Vincenzo Schettini).
Dunque, ciò che un influencer dice/dice di pensare/mostra/fa è preso in seria considerazione da gruppi di persone che lo riconoscono rilevante nel campo. Gruppi che si fanno comunità e che si misurano col metro delle migliaia, se non dei milioni. Tutto ciò non è passeggero, così come la storia dei media dimostra che i nuovi media si aggiungano e integrino agli esistenti ‒ non che li sostituiscano.
La figura dell’influencer sarà una protagonista strutturale del panorama media delle società avanzate
Se mettiamo insieme la permanenza del sistema socio-tecnologico abilitante l’esistenza dell’influencer e le molteplici utilità che questi offre, sia ai brand che agli utenti, la mia opinione è che questa figura sarà ancora una protagonista strutturale del panorama media delle società avanzate. L’Influencer, oggi come domani, insomma, giocherà un ruolo non trascurabile nelle dinamiche economiche, ma sempre più estenderà il proprio raggio d’azione a quelle politiche, sociali e culturali. In questi ultimi contesti, molti influencer si affermeranno sempre più ed è probabile vinceranno, sostanzialmente, per mancanza di avversari di pari rango, facendo premio sul capitale di fiducia che hanno accumulato. Ce n’è abbastanza, insomma, perché questi soggetti continuino ad essere, per alcune comunità di persone, degli agenti di senso forti e stabili, capaci di ridurre la complessità del vivere contemporaneo a dimensioni più semplici e di proporre orizzonti nuovi ai desideri e bisogni delle persone. Alle prossime tornate elettorali sarà cosa saggia monitorarne le azioni. La democrazia è fragile, spesso si dice, ma anche vitale e autopoietica. Chissà se gli influencer non ne saranno i nuovi protagonisti del consenso, e in che misura?
*Alberto Mattiacci, Presidente del Comitato Scientifico dell’Eurispes.