Modello 231, la compliance integrata nel capitalismo di comunità

compliance integrata

Si viene presi da un senso di positiva armonia dopo la lettura di La compliance integrata per l’attuazione del Modello 231, importante lavoro edito da Primiceri di approfondimento sul Modello 231, che colloca la realtà aziendale nella più vasta cornice di una responsabilità sociale e verrebbe da aggiungere “civile” che gli imprenditori e i manager devono avvertire in una fase drammatica come quella che l’intero pianeta sta vivendo. Lo studio di Mirjana Petrovic, Lucio Gioachino Insinga e Fabrizio Rossi va oltre la connotazione di un manuale d’uso, perché rimette molte cose al loro posto, operazione non semplice in questa fase di cambiamento d’epoca. Il messaggio che gli autori lanciano, non solo al pubblico agli addetti ai lavori ma al target più ampio del corpo collettivo interessato a sapere qualcosa in più sul futuro che ci attende, è molto chiaro: nella “società delle catastrofi”, attraversata da continue emergenze, per reggere l’impatto della tempesta perfetta, che oggi si è materializzata nella pandemia, ma che domani potrà assumere altre imprevedibili sembianze, bisognerà puntare sulla competenza e sulla capacità di leadership se vogliamo uscire dal lungo tunnel fatto di declino e di paura entro cui siamo piombati.

Compliance integrata e la responsabilità come valore precipuo dell’impresa

Parlare del D.Leg. 231 che ha determinato delle profonde trasformazioni strutturali e tecnico-organizzative per milioni di imprese, vuol dire sottolineare l’importanza della responsabilità come valore precipuo dell’impresa. Responsabilità è un termine critico, difficile da maneggiare che ci riconduce nell’alveo del dualismo classico tra nomos ed ethos, tra Creonte e Antigone, tra l’imperio della legge che definisce il campo della liceità e la dimensione del dover essere, che mette in campo l’individuo. Sono almeno tre i livelli di analisi, che si possono utilizzare per scandagliare il corpo di questo interessante e ben documentato volume:

  • giuridico, se ci si sofferma sulle parti dedicate alo sviluppo e all’inquadramento normativo;
  • filosofico, apprezzabile nella capacità di lettura critica del presente, dote che appare molto spiccata nei tre autori;
  • strategico, dal momento che non è in gioco solo l’adempimento della norma, ma l’indirizzo più complessivo che imprese grandi e piccole, dovranno imboccare nella dinamica della competizione, che si gioca su scala globale.

La complessa dicotomia tra ethos e nomos va collocata in un ambito interdisciplinare, perché nessuno dei livelli presi in esame può essere sufficiente a se stesso. Possiamo solo procedere per prova ed errore, come ci ha insegnato Popper, se vogliamo che il nostro grado di conoscenza registri dei progressi e che la scienza vada avanti nel suo cammino di approssimazione alla verità. Questa consapevolezza che ci fa forti e deboli allo stesso tempo, è riconoscibile nel metodo seguito dagli autori. Il case history cui è dedicata la parte conclusiva del libro, che racconta l’esperienza della Diddi Dino & Figli Srl afferma un principio, che vale la pena esplicitare: “vogliamo affermare una cultura orientata all’esigenza di correttezza e trasparenza nella conduzione degli affari”. Nella sintesi dell’enunciato è leggibile un manifesto programmatico che contiene una molteplicità di aspetti che sono in questo momento al centro del dibattito pubblico: la trasparenza negli affari come motore del business e non come suo ostacolo; l’etica che deve tornare a fare da riferimento, quale “nome nuovo da dare al pensiero”, per usare la definizione di Edgar Morin, oggi centenario sociologo francese primo teorico fondatore della complessità. Non si tratta di mere disquisizioni filosofiche, ma delle giuste chiavi di accesso per comprendere l’approdo dell’impresa oggi posta di fronte a una duplice inaggirabile priorità: transizione ambientale e tecnologica. Le azioni messe in atto dalla Diddi, dalla formulazione del codice etico, alla messa a punto del sistema sanzionatorio, alla definizione di un assetto organizzativo idoneo alla prevenzione dei reati, vanno nella giusta direzione, perché frutto di una visione includente che fa ben comprendere come il lavoro di mappatura delle vulnerabilità e di prevenzione dei reati deve tendere a includere il corpus dell’azienda in tutte le sue componenti.

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Sul terreno di questa nuova sensibilità etico-giuridico si scopre che “più nessuno è incolpevole”, per citare un verso celebre della straordinaria Primavera Hitleriana di Eugenio Montale. Non possiamo più chiamarci fuori, siamo dentro una “comunità di destino” fatto di interdipendenza e complessità crescente. Va detto che questa visione, matura già in alcuni scritti precedenti di Lucio Insinga (basti in questa sede ricordare: Come finanziare l’impresa, pubblicato dallo stesso Primiceri e La responsabilità sociale, Ed. Plenum) rientra in un filone di ricerca che fa vedere molto bene come per fare impresa non basta poter disporre di un elevato corredo di conoscenze tecnico-giuridiche ed economico-finanziarie. Serve un “quid”, un “di più” misurabile nella capacità ermeneutica di lettura del tempo complesso, abilità che l’imprenditore deve imparare ad affinare, perché da essa dipende ogni chance di successo. Solo se collocata in quest’ottica trasversale la norma giuridica può contribuire a creare valore, non risolvendosi unicamente in un freddo adempimento burocratico, che l’imprenditore deve subire come un costo, o forse ancor peggio come un peso intollerabile. È evidente che siamo di fronte a un cambio di passo: non possiamo soffermarci sulla “messa in regola”, statica ritualità di un tempo che non esiste più, l’asse della valutazione dell’efficacia ed efficienza della performance aziendale va ruotata sugli impatti che ogni scelta economico-finanziaria proietta sugli stakeholders e sulla comunità di interessi verso cui si rivolgono le attività del business. Lo sviluppo di un doppio legame tra azienda e territorio, che emerge come uno degli aspetti centrali della trattazione, lascia presagire l’affermazione di una “cultura del confronto”, intersettoriale (tra il settore pubblico e privato) e infrasettoriale (tra grandi player e la piccola impresa) destinata a segnare un diverso assetto di sistema, realizzabile nella dinamica di una vera e propria “rivoluzione copernicana” imperniata sul nuovo paradigma di un “capitalismo comunitario” come sostiene in un’ampia e interessante disamina Roberto Panzarani ne Il nuovo paradigma (ed. Lupetti).

Ribadire il peso delle PMI nella crescita del nostro ecosistema culturale e geografico

Nessun discorso sulle regole può essere fatto se istituzioni e imprese continuano a mostrarsi incapaci ad attuare la logica della rete, mantenendo degli steccati che di fatto frenano ogni possibilità di crescita. Liberarsi da vetusti antagonismi può tradursi in una maggiore possibilità di reggere l’urto della crisi, senza contare che dal confronto tra la sfera pubblica e privata, le PMI (che restano al centro dell’interesse degli autori e che stanno in una percentuale significativa affrontando la difficile prova del cambio generazionale nel terribile guado della “tempesta pandemica”), possono trarre quelle best practices e quelle competenze manageriali, di cui avvalersi per governare lo sviluppo necessario a reggere alla prova dei mercati. Il richiamo, troppo spesso abusato, all’inadeguatezza dimensionale delle nostre imprese troppo piccole per reggere il grande gioco della competizione globale, non sembra più di attualità, rispetto alla maggiore urgenza manifestata dagli studiosi di ribadire il peso che proprio le PMI hanno storicamente esercitato nella crescita del nostro ecosistema culturale e geografico, punteggiato dalla grande fioritura delle città, ma anche contrassegnato dalla campagna, da sempre serbatoio naturale di risorse e intelligenze. Nel “secondo tempo” della globalizzazione le categorie stesse di grande e piccolo vengono messi in discussione, nella più generale trasformazione di equilibri, gerarchie, che sottende una diversa distribuzione della ricchezza e dei talenti. La pandemia, imponendo la distanza come misura preventiva del contagio, ha alterato la percezione dello spazio, ma ha anche stravolto la percezione del tempo, ora soffocato, quasi ingoiato dallo “stato attrattore” dell’ansia e di una paura diffusa. A queste condizioni è possibile superare ogni tentazione al “declinismo” e alla negatività, se ci impegniamo a spostare l’obiettivo sulla vitalità dei nostri microcosmi, fatti di realtà imprenditoriali che hanno dimostrato anche nei momenti più difficili di saper guardare oltre e di parlare il linguaggio del futuro. Stiamo provando a rialzare il capo a uscire da questa “ora buia” ma, attenzione, non è finita: la ricostruzione del paese non sarà automatica, bensì parte dalla capacità che sapremo dimostrare di mettere in campo le migliori energie, che vuol dire fare impresa instaurando un saldo rapporto di profondo rispetto morale per le nuove generazioni e per l’habitat entro cui ci muoviamo. Alla “R” di “Resilienza” concetto su cui si sta giustamente insistendo in questa fase, va aggiunta la “R” di “Riscatto”, perché implica la duplice dimensione dell’etica e dell’economia, quali parametri che vanno oltre il Pil ricomprendendo la categoria dello sviluppo umano. 

Quest’ultima considerazione mi permette di evidenziare un ulteriore duplice merito di questo lavoro: il primo riguarda la riflessione che è capace di indurre sull’importanza delle regole e più in generale della cultura del diritto, che fa da pavimento a quel contratto sociale che trova il suo riflesso più alto e diretto nella nostra Costituzionale; il secondo attiene al rigore con cui viene affrontato il delicato binomio etica ed economia, cui facevo prima riferimento, in un momento in cui si parla molto di neoumanesimo digitale e il Magistero di papa Francesco in numerosi scritti e interventi ufficiali sta enucleando i principi valoriali di un modello di sviluppo economico costruito sul valore della persona, sulla solidarietà, sulla promozioni delle relazioni e dei diritti universali.

Il legame tra azienda e territorio apre a una cultura del confronto intersettoriale e infrasettoriale

In conclusione credo che faremmo bene ad evitare l’Errore di Cartesio, come suggerisce in un bellissimo saggio Antonio Damasio (ed. Adelphi) che ha cercato invano di separare ragione ed emozione, senza ottenere i risultati sperati. Piuttosto è il bilanciamento di queste componenti che spiega in maniera ancora più compiuta quell’armonia che ho cercato di raccontare all’inizio, fatta della convivenza platonica ”dell’uno e della diade”, la cui prova tangibile si attua in quella sintesi creativa, fatta di conoscenza e attitudine al sogno che i nostri imprenditori hanno sempre avuto e che ha contribuito a fare grande il nostro paese. Non facciamoci comunque illusioni: resta comunque difficile, soprattutto in questo delicato momento della storia, prevedere quale di queste due componenti prevarrà, sullo sfondo di quell’eterno conflitto tra libertà e sicurezza, la cui forza sovrasta ogni possibilità argomentativa e dialettica. Non me ne vogliano, dunque, gli autori, se annichilito da tanta potenza non vado oltre nel mio commento, attribuendomi l’unico privilegio di poter rivolgere loro i più sinceri complimenti.

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