Accordo Ue-Cina sugli investimenti: il gioco vale la candela?

L’accordo Ue-Cina

Qual è il filo rosso che lega tre documenti apparentemente tra loro così dissimili come l’accordo sino-britannico su Hong Kong (1984), l’adesione della Cina all’OMC (2001) e il “Comprehensive Agreement on Investment” (CAI) raggiunto in principio da Pechino e Bruxelles il 30 dicembre scorso? Condividono la medesima struttura strategica. In tutti e tre i casi, muovendo da una diversità di fondo negli obiettivi delle parti, si arriva a concludere un’intesa che garantisce il predominio dell’attore più aggressivo. In ciascuno di essi, strategie e tattiche negoziali cinesi hanno fatto la differenza: mentre Pechino sfrutta calendario e circostanze esterne a proprio vantaggio perseguendo obiettivi geopolitici, le sue controparti “limitano” le ambizioni a scopi di cooperazione e finiscono per seguire le altrui agende.

Senza entrare troppo nei tecnicismi del CAI, vale ricordarne la genesi e alcune cifre: 7 anni e 35 round negoziali, 25 accordi bilaterali sugli investimenti fra Stati Ue e Cina da sostituire, sensibile squilibrio negli Investimenti Diretti Esteri (IDE) – dei €140 miliardi di IDE Cina-Ue negli ultimi vent’anni, 120 sono quelli cinesi nel mercato unico. Tutti presupposti sufficienti a giustificare l’impegno di Bruxelles; eppure, la montagna sembra aver partorito un topolino, e l’ha fatto prematuramente.

Questo, essenzialmente perché, malgrado le ambizioni, l’elemento che più qualifica l’accordo è il perdurare di un’asimmetria di fondo per cui l’Ue coopera, mentre la Cina diserta. Situazione tanto più paradossale quando si consideri che il CAI nasce proprio dall’intenzione, europea, di correggere il profondo squilibrio tra le parti, ponendosi appunto tre obiettivi principali: migliorare l’accesso di imprese europee al mercato cinese, operare in condizioni di reciprocità e garantire un level playing field.

Per meglio inquadrare il CAI centrale è il tema del rispetto delle regole. Se i numeri confermano che il competitivo mercato Ue è già ampiamente aperto agli investimenti cinesi con poche restrizioni, non vale il contrario. E, nonostante alcune concessioni ottenute da Bruxelles in termini di accesso al mercato nei settori automobilistico (auto elettriche), energetico, delle telecomunicazioni e della sanità privata, appare difficile che il riequilibrio sperato possa concretizzarsi. E non solo per disposizioni sull’enforcement di fatto blande, ma soprattutto perché la Cina continua a non voler rinunciare alla filosofia che in questi anni ha ispirato la sua azione: giocare sempre e solo secondo le proprie regole. Lungi dall’essere casuale, l’approvazione, pochi giorni prima dell’accordo, di una legge che permette di subordinare investimenti esteri a ragioni di sicurezza nazionale s’inserisce proprio in questo quadro. Un gioco in cui l’Ue, se da sola, sarà sempre in svantaggio.

Ma l’asimmetria a favore della Cina non è solo nell’economia dell’accordo ma anche nei suoi aspetti politici e geopolitici. Pechino, grazie ad un accordo con l’Ue, campione di diritti umani, cerca una riabilitazione agli occhi della comunità internazionale, dopo le recenti vicende controverse a Taiwan, Hong Kong e nel Xinjiang. Non solo; gli impegni assunti dal Dragone alla ratifica delle due convenzioni dell’Organizzazione Mondiale del Lavoro sul lavoro forzato – dei quali la Commissione Europea si è compiaciuta – non prevedono alcuna deadline specifica perché questo avvenga con certezza. La partita è stata giocata personalmente dal Presidente Xi Jinping a dimostrazione della strategicità annessa alla chiusura dell’accordo proprio con quel tempismo. Anche se il CAI non dovesse mai entrare in vigore (il Parlamento Europeo dovrà pronunciarsi e si preannunciano battaglie) per il Celeste Impero rappresenta comunque una vittoria.

Per l’Ue i benefici dell’accordo non sembrano giustificarne il prezzo da un punto di vista geopolitico. Simbolicamente il CAI può essere visto come un’applicazione dell’autonomia strategica europea, a pochi mesi dalla firma del RCEP. Realisticamente, però, anche alla luce della attitudine della nuova Amministrazione americana, esso rischia di compromettere le chances di una rinnovata cooperazione Bruxelles-Washington (o quanto meno di rallentarne i tempi e renderla più difficile), segnando un punto a favore della strategia di Pechino d’impedire un asse atlantico in chiave anti-cinese.

Infine, vi è asimmetria anche nelle dinamiche intra-europee. Il CAI, più che europeo, è un accordo a trazione tedesca. Non a caso, circa la metà degli IDE europei in Cina proviene dalla Germania e interessa in particolare il settore dell’automotive. Non stupisce, allora, l’accelerazione della Cancelliera per rispettare la scadenza che le parti si erano date prima della pandemia e aggiungere, così, un altro importante successo al semestre di presidenza Ue della Germania. A rafforzare l’impressione di un accordo “molto tedesco” è peraltro il contrasto con quello sulla Brexit, siglato solo una settimana prima e rappresentativo di un’Unione coesa e ispirata all’interesse collettivo.

Che cosa significa per l’interesse nazionale italiano?

Roma è non solo un importante partner commerciale per Pechino, ma anche l’unico paese G7 ad aver firmato l’accordo sulla Via della Seta. Eppure, in questa circostanza ha giocato un ruolo marginale. Cionondimeno, il CAI può offrire alcune opportunità vantaggiose anche per il nostro Paese. Non solo quelle relative all’automotive, che dovrebbero consentire alla neonata Stellantis di accedere al mercato cinese delle vetture elettriche, ma anche quelle nei settori energetico ‒ Eni e Enel sono interessate alle opportunità legate alla borsa elettrica, alla distribuzione, alle rinnovabili – e delle telecomunicazioni, specie nel cloud computing. Al netto dei limiti oggettivi in tema di trasferimenti economici/tecnologici, sicurezza economica e/o nazionale, diritti dei lavoratori e di protezione dell’investitore singolo ‒ qui la risoluzione delle controversie rimane a livello politico, Stato-Stato – l’accordo apre scenari economici interessanti per l’Italia.

Sotto il profilo politico, vi è chi legge l’assenza di protagonismo nostrano nel negoziato come sviluppo positivo, specie in relazione al rapporto con la nuova Amministrazione. In realtà, la partita è aperta e non può essere la partita di un singolo. Si tratta di una partita che il nostro Paese ha interesse a giocare in squadra, avvalendosi di quei legami con Washington ancora saldi e ritagliandosi un ruolo primario in ambito Ue. Va giocata su entrambe le sponde dell’Atlantico con realismo, pragmatismo e necessaria fiducia reciproca. Il focus di Roma e Bruxelles deve essere il rafforzamento dell’asse con Washington, rinnovando una partnership fondata su valori condivisi che consentano di giungere a un approccio non più concorrenziale ma comune alla Cina (e alla tecnologia). Se così sarà, allora il grande sconfitto dei nostri tempi, quel multilateralismo da tutti stigmatizzato e avversato, potrebbe tornare utile. Il CAI è, paradossalmente, la dimostrazione che un fronte transatlantico compatto avrebbe molta più leva verso Pechino e potrebbe catalizzare un’ancor più ampia coalizione fondata sui valori per promuovere lo Stato di Diritto e ottenere reali impegni su accesso al mercato, sussidi a imprese di Stato, rispetto della proprietà intellettuale anche nel settore manifatturiero. È forse il solo modo che abbiamo oggi, come Italia e come paese Ue, per garantire i nostri interessi nei confronti di Pechino e controbilanciare la Cina sulla scena mondiale.

L’articolo è disponibile anche in inglese https://www.leurispes.it/eu-china-agreement-on-investments-is-the-risk-greater-than-the-reward/

 

*Cecilia Piccioni, diplomatica, è membro del Comitato Scientifico dell’Osservatorio sui Temi Internazionali dell’Eurispes.

*Michele Bellini è Executive Officer presso la Paris School of International Affairs di Sciences Po.

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