Una pesca, la democrazia e la pubblicità

spot Esselunga

Parliamo di uno spot pubblicitario. Parliamo di un video tecnicamente ben fatto: buona scrittura, ottima regia, attori bravi, messaggio chiaro, storia comprensibile. Parliamo di un filmato pubblicitario, quello di Esselunga, la principale catena di distribuzione operante in Italia – qui la sua storia. Se “non sapete di cosa si tratti” (come ha detto la segretaria del PD quando le si è chiesto di aggiungere la propria opinione al montante dibattito sullo spot), cliccate qui: dura due minuti precisi. Lo spot sta girando sugli schermi Tv ed è divenuto oggetto di confronto – suo malgrado (?) – anche politico. E qui, superata la sorpresa di scoprire che uno spot possa accendere ancora oggi discussioni pubbliche, sta una prima questione: la pubblicità ha ancora un ruolo attivo nella società attuale? Davvero le storie che racconta hanno un impatto sui pensieri e comportamenti delle persone? Concluderò questo articolo con la mia opinione in proposito.

Nel sistema di valori che ispira lo spot Esselunga la famiglia tradizionale unita sembra essere preferibile a tutte le altre

Prima chiediamoci: qual è il tema intorno al quale si è acceso il dibattito? La storia che lo spot racconta ruota intorno a una pesca: una bambina (melanconica ma vispa) la usa come strumento di una speranza: far riavvicinare i genitori separati (melanconici anche loro). Il video-racconto non ci dice se avrà successo o meno nel suo progetto, né ci dà alcun indizio in tal senso. Ci lascia intendere, però, alcune opinioni di chi ha firmato lo spot (cioè Esselunga):

  • i genitori: nell’esperienza di un gestore di supermercati, la coppia genitoriale prevalente, anche nella società fluida del XXI secolo, è composta da un padre maschio e da una madre femmina. A questa coppia decide perciò di rivolgersi, perché di mestiere vende cose e in funzione di questo seleziona le audience cui parlare;
  • la separazione: nell’esperienza di un gestore di supermercati, la separazione è un caso diffuso e in crescita (forse addirittura fino a diventare equipollente rispetto alle coppie che stanno assieme). Per la ragione vista sopra – Esselunga vende cose – si rivolge anche a queste coppie. Ma qui c’è un ma che emerge: lo vediamo al punto successivo;
  • i bambini, la storia dello spot manifesta una precisa idea (non sappiamo se basata sull’esperienza) del gestore di supermercati, in merito alla famiglia divisa: i bambini non sono affatto felici che i genitori vivano separati (e, forse, non lo sono nemmeno i loro genitori, malinconici come la figlia, ancorché nello spot siano rappresentati come giovani, piacenti e benestanti);
  • i valori: nel sistema di valori che sembra ispirare il gestore di supermercati, la famiglia tradizionale unita sembra quindi essere preferibile a tutte le altre condizioni che la contemporaneità fluida, vorrebbe fossero considerate parte della normalità sociale.

Il tema del contendere appare dunque chiaramente collocato dentro la società italiana di oggi e il suo dimenarsi fra la conservazione e la trasformazione. Fuori, della pubblicità stessa e dei suoi obiettivi di marketing, è divenuto un confronto ideologico fra conservatori e progressisti sul terreno di quella che il sociologo Emile Durkheim chiamava la famiglia coniugale – marito, moglie, figli minorenni e celibi.

I conservatori hanno apprezzato lo spot Esselunga leggendolo come una sorta di “manifesto morale”

I conservatori hanno apprezzato lo spot leggendolo come una sorta di “manifesto morale”. Hanno estratto dallo spot alcuni contenuti, ovviamente esaltandoli: (i) l’affermazione della coppia eterosessuale come sola modalità possibile di famiglia; (ii) l’esaltazione emozionale dell’unione familiare, contro la separazione, fonte di sofferenza; (iii) la centralità della serenità del figlio (uno solo, per carità, siamo in crisi demografica) nelle decisioni familiari. I progressisti, all’opposto, la denigrano, ritenendola espressione di un pensiero fuori dal tempo e dalla realtà, pericoloso argine alla libertà delle scelte che la società fluida pretende sia lasciata all’individuo maturo e consapevole. Mi pare che, in controluce rispetto alle posizioni conservatrici, queste opinioni attacchino alla radice la famiglia coniugale, sostenendo che: (i) il modello di famiglia tradizionale, stile “Mulino Bianco Barilla” (toh! Un’altra pubblicità), non può essere più l’archetipo ideale, unico capace di dare serenità ai membri della famiglia; (ii) l’idea che vi sia una corrispondenza rigida fra ruolo genitoriale (padre, madre) e condizione di genere (uomo, donna) è obsoleta e liberticida; (iii) il ruolo primario delle esigenze del bambino rispetto a quelle dei genitori non è detto sia né scontato, né giusto.

Lo spot pone a tutti noi una questione ben superiore, di civiltà e democrazia

Tiriamo le fila. Diversità, inclusione, rispetto, libertà, sono parole d’ordine della contemporaneità che, in quella parte di mondo che diciamo “occidentale”, attraversano come spade affilate la condizione umana. Una parte, probabilmente minoritaria, ma certo non marginale, della popolazione occidentale, chiede libertà di espressione nelle scelte esistenziali primarie, fra cui ovviamente c’è quella di istituire una famiglia che si vuole poter essere anche diversa dal modello coniugale tradizionale. E certo non può esservi vera libertà senza vero rispetto del suo esercizio. Questa richiesta, talvolta, sembra assumere le forme di un’ostilità aperta verso le strutture valoriali della tradizione – altrettanto legittime e degne di rispetto. Non manca, infatti, chi parla in proposito di una “offensiva culturale” portata ai modelli tradizionali, lamentando che il medesimo rispetto che si deve alle istanze di una minoranza, sia offerto da questi ultimi a quelle della maggioranza. È, se non ricordo male, uno dei princìpi dell’organizzazione democratica e civile della collettività. Così, ecco che quella pesca da supermercato pone a tutti noi una questione ben superiore, di civiltà e democrazia. Forse, allora, la bambina protagonista dello spot è pensierosa più che melanconica, consapevole, cioè, di quanto quella pesca pesi sugli equilibri della nostra società, quella in cui, da adulta, sarà chiamata a decidere cosa fare di sé stessa.

Come non esiste più una società di massa, così non vi sono più agenti di senso capaci di parlare a interi gruppi sociali

Infine, un breve pensiero conclusivo sulla pubblicità. La pubblicità è stata per decenni una delle insegne del capitalismo commerciale: strumento avversato dalla Chiesa e da molti intellettuali, specialmente progressisti – come Marcuse in Francia, Pasolini in Italia, Packard negli Usa; magnificato da altri – imprenditori, manager, pubblicitari; accolto, spesso con ostentata malavoglia (ma celata soddisfazione per la gratificazione economica che offriva), da artisti di ogni genere e orientamento – Fellini e Tornatore, Manfredi e Grillo, per citarne solo alcuni. Se mai la pubblicità ha avuto un ruolo-guida nel definire la realtà percepita dalla massa (e questo è tutto da dimostrare) di certo non lo ha più oggi. La società attuale è frammentata: nei gruppi sociali (fino all’individualismo più estremo); nei media, ghettizzando la tv alle sole classi demografiche superiori; nelle istanze di acquisto e consumo, e così via. Come non esiste più una società di massa, così non vi sono più agenti di senso capaci di parlare – meno che mai, indirizzare – a interi gruppi sociali. Se insomma, parafrasando Guccini, “Dio è morto”, non è che uno spot, per quanto ben fatto, possa colmare quel vuoto lì.

*Alberto Mattiacci, Presidente del Comitato Scientifico dell’Eurispes, Ordinario di economia all’Università Sapienza di Roma.

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