La convinzione che il cosiddetto Stato sociale europeo fosse un ostacolo allo sviluppo del mercato moderno e che stesse sottraendo cospicue risorse agli investimenti produttivi si è rivelata inconsistente. Proprio le esperienze recenti dimostrano che senza il suo sistema di welfare l’Europa non avrebbe retto all’urto delle crisi.
Si è riscoperto, finalmente, che l’economia deve essere al servizio delle persone e non queste al servizio dell’economia. E si è anche capito che John Mainard Keynes non era uno spericolato marxista, ma un saggio liberale.
Il premio Nobel per l’economia Paul Krugman ci ha spiegato che, se non possiamo eliminare gli eccessi di ricchezza, dobbiamo almeno combattere gli eccessi di povertà.
In un sistema sociale che riproduce incessantemente e con modalità inedite forme di esclusione economica, sono ancora più evidenti la marginalizzazione di strati sempre più ampi della popolazione, il carattere dinamico, multiplo e complesso della povertà e il suo consistere, non soltanto in situazioni di carenza materiale ed economica.
Il declino progressivo di interi comparti produttivi e territoriali, l’impoverimento di gruppi sociali e di ceti professionali che si ritenevano immuni da crisi di sistema, l’intensità delle nuove povertà culturali, la precarietà caratteristica dei rapporti di lavoro del nostro tempo, rappresentano ormai elementi di profonda destrutturazione sociale.
Lo Stato non può limitarsi all’esercizio di un ruolo esterno di vigile del mercato
È vero, i principali fattori di crisi della società post-industriale sono stati più volte analizzati e interpretati: la crisi fiscale dello Stato, il progressivo venir meno delle reti tradizionali di protezione sociale e welfaristica, l’indebolimento dei modelli di rappresentanza politica, i processi di spaesamento e di desertificazione culturale, i grandi sommovimenti demografici mondiali.
Nella società post-moderna si impone però uno sforzo suppletivo di immaginazione e di progettualità, per evitare fenomeni di disintegrazione sociale, di darwinismo tra le classi e l’intensificarsi di conflitti permanenti che minano i fondamenti stessi della civile convivenza e le capacità predittive e regolative del sistema socio-politico. Lo Stato non può limitarsi all’esercizio di un ruolo esterno di vigile del mercato.
Tra esclusione e inclusione sociale, flessibilità e precarietà
Le sfide dei cambiamenti strutturali in atto impongono che lo Stato eserciti e qualifichi al massimo il ruolo – che peraltro già svolge – di attore protagonista dentro il sistema di mercato, per affermare al meglio il valore dei beni e dei servizi che produce direttamente, per operare a tutela degli asset strategici del nostro sistema, per promuovere la crescita dei cosiddetti “beni comuni”, appartenenti agli individui e alle comunità, il cui valore è sempre più riconosciuto dagli organismi internazionali, a cominciare dall’Agenda 2030 delle Nazioni Unite che anche l’Italia ha approvato e si è impegnata a realizzare.
Attualmente, nel contesto dello sviluppo globale e dei cambiamenti strutturali, una presenza statale direttamente impegnata nella produzione di beni e servizi, avrebbe senso solo se promuovesse la costruzione di nuove opportunità di profitto e di crescita, sulla base di un diverso equilibrio tra consumi pubblici e quelli privati. Tra la quantità e la qualità dello sviluppo. Tra esclusione e inclusione sociale, sia nei processi produttivi sia nella vita comunitaria. Tra flessibilità e precarietà strutturale. Tra valorizzazione e dissipazione del capitale umano, soprattutto di quello giovanile.
Stato e Istituzioni come “stanze di regolazione” tra gli interessi del mercato e i bisogni del corpo sociale
La crisi economica ha prodotto, insieme all’impoverimento di ampie fasce sociali, la progressiva delegittimazione della politica e quindi delle Istituzioni considerate inadeguate a comprendere e a gestire la complessità e i percorsi dei cambiamenti epocali.
Il compito della politica, e quindi dello Stato e delle sue Istituzioni, è quello di essere “stanze di regolazione” tra gli interessi della finanza e del mercato e i bisogni e le attese del corpo sociale. La politica e le Istituzioni torneranno a essere credibili quando sapranno dimostrare di essere in grado di governare i processi piuttosto che di esserne governati.
Nel Mezzogiorno divario “geografico” e di genere
In questo contesto, analizzando anche solo i dati appena prima dell’inizio della pandemia e dello stallo dell’economia mondiale, in Italia emerge una marcata diseguaglianza del mercato del lavoro, che potremmo definire geografica. Il tasso di disoccupazione del Mezzogiorno nel 2019 era al pari al 31,1%, un valore molto distante da quelli del Centro, 16,1%, e del Nord, 10,9%.
A quello geografico si aggiunge il divario di genere. Un divario che denuncia non solo una discriminazione tra uomini e donne sul mercato del lavoro, ma anche l’assenza di un cambiamento di rotta, in quanto il divario è rimasto negli ultimi decenni invariato.
Nel Mezzogiorno, una giovane donna ha una probabilità di non trovare lavoro più alta del 6,4% rispetto ad un suo coetaneo. Nel 2019 la differenza nella partecipazione alla forza lavoro tra donne e uomini è stata di 19,29 punti percentuali nel Mezzogiorno, di 8,8 punti percentuali al Centro e di 9,7 punti al Nord.
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Bene, in un momento così segnato da una persistente disoccupazione, forse è utile ricordare il richiamo che John Maynard Keynes fece al Presidente degli Stati Uniti, Franklin D. Roosevelt, nel 1933, durante la “grande crisi”: «Prendetevi cura della disoccupazione e il bilancio pubblico si prenderà cura di se stesso».
Quaranta anni fa, nel 1977, l’economista americano John Kenneth Galbraith pubblicava il famoso libro su “L’età dell’incertezza”, facendo riferimento alla situazione internazionale creata dai grandi avvenimenti di quel periodo come, ad esempio, la crisi petrolifera e la crisi del sistema monetario internazionale. A oltre quaranta anni di distanza, la parola “incertezza” è sempre attuale, ma ha assunto dei significati ben diversi, soprattutto per il futuro del sistema europeo. È un dato di fatto che la incertezza e la precarietà del nostro tempo sono un fenomeno strutturale che riguarda innanzitutto i valori e l’organizzazione della società contemporanea, un fenomeno che sempre più diffonde i suoi effetti dal mondo del lavoro alla economia, alla società, alle Istituzioni pubbliche europee e nazionali; un fenomeno che riguarda gruppi sociali sempre più estesi e che sta assumendo sempre di più le caratteristiche di una crisi esistenziale.
Ripartire dalla crisi esistenziale generata dall’incertezza
Il giovane precario, il lavoratore precario, la famiglia che vive in condizioni di precarietà, finiscono per entrare in una vera e propria crisi che non è azzardato definire come esistenziale. È da qui occorre ripartire per uscire realmente dalle finzioni e dalla retorica e provare a costruire un progresso civile degno di questo nome, basato, come continuamente viene ripetuto, su uno sviluppo equo e sostenibile. Immaginare una simile azione correttiva dei nostri sistemi richiama non soltanto la necessità di promuovere nuovi indirizzi di politica economica e sociale, ma anche, ancor più, l’esercizio di precise responsabilità morali, civiche, politiche.
Esiste un futuro, possibile, da esplorare, che risponde alla domanda: dove stiamo andando?Ma c’è anche un futuro, altrettanto possibile, da costruire, che risponde ad un’altra domanda ben più importante: quale futuro vogliamo costruire?
*Gian Maria Fara, Presidente dell’Eurispes.